Obama
il temporeggiatore

09/11/2009

Il 2 novembre 2009 George Friedman pubblica su Strategic Forecast Obama and the U.S. Strategy of Buying Time in cui riassume gli aspetti fondamentali della strategia statunitense in politica estera. Friedman parte da considerazioni oggettive sui tratti della potenza americana, per poi scendere nel dettaglio della rovente questione iraniana. Le trattative fra Occidente e Repubblica Islamica volgono ormai al termine: Obama sta cercando di guadagnare tempo, ma prima o poi dovrà decidere se accettare un Iran nucleare con un ruolo egemone nel Medio Oriente oppure prendere tutte le misure necessarie per impedire che questo accada. Riassumiamo i passi salienti dell’analisi di Friedman.
 
La Grande Strategia degli imperi di successo.
 
I grandi imperi di successo nella storia dell’Occidente (Roma, Impero Britannico, Stati Uniti) hanno in comune gli aspetti strategici fondamentali, grazie ai quali fu possibile un lungo ciclo di espansione e di sopravvivenza.
L’antica Roma badava soprattutto ai problemi domestici e cercava di intervenire il meno possibile militarmente nel resto del mondo, per limitare i costi. Roma difendeva con tenacia le rotte commerciali nel Mediterraneo, ma garantiva un ampio livello di autonomia alle varie regioni.
Anche l’Impero britannico cercava di usare il meno possibile l’opzione militare preferendo invece stringere alleanze con le fazioni locali in modo da promuovere una certa  stabilità a lungo termine. Pur avendo un approccio per lo più difensivo, entrambi gli imperi venivano percepiti come una minaccia dai vicini per il semplice fatto che esistevano ed erano potenti, e ben presto diventarono bersaglio di attacchi esterni. Alla fine, volenti o nolenti, furono costretti a intervenire nel resto del mondo. Da questo si capisce che qualsiasi impero per garantire la propria sicurezza nazionale è costretto ad assumere un atteggiamento offensivo prima o poi.
 
La prosperità dell’America è inscindibile da un certo livello di coinvolgimento internazionale. L’economia statunitense costituisce circa il 25% dell’economia mondiale, l’esercito americano controlla tutti i mari.  Quindi gli Americani in un modo o nell’altro condizionano inevitabilmente la vita di numerosi stati. Sono come un elefante in una stanza: anche se non ha affatto intenzioni ostili, l’elefante è un pericolo per le persone e le suppellettili nella stanza. 
 
Il presidente Obama deve cercare di conservare il potere degli Stati Uniti senza imporre al paese costi di gestione troppo elevati. Peraltro gli Stati Uniti, proprio per la  dimensione della loro potenza, sono costretti a scontrarsi con il mondo esterno.
 
Proprio come nel caso di Roma e dell’Impero Britannico, la strategia statunitense è guidata innanzitutto dalla geografia e dalla storia piuttosto che da  decisioni politiche occasionali.
  
La Grande Strategia degli Stati Uniti si basa su di un sistema a tre livelli per difendere il proprio potere:   
 
·         Il primo livello (il più semplice e meno costoso) consiste nel mantenere l’equilibrio nelle diverse regioni del mondo fornendo aiuti agli stati più deboli per evitare che cadano sotto i colpi dei più forti. Finché le altre potenze sono impegnate nel controllarsi ed equilibrarsi a vicenda non rivolgono la loro attenzione esclusivamente agli Stati Uniti. Il primo obbiettivo degli Stati Uniti consiste nell’indebolire le potenze emergenti per evitare che crescano troppo e diventino quindi una minaccia per l’egemonia americana.
·         Il secondo livello si presenta nelle situazioni in cui non appare possibile garantire l’equilibrio sostenendo gli stati più deboli. Gli Stati Uniti devono allora tentare di contenere l’instabilità unendosi in coalizione con altre potenze per intimidire le potenze emergenti innanzitutto con l’arma economica e, in extremis, con l’arma militare.
·         Nel caso sia impossibile costruire una coalizione per arginare l’ascesa di una nuova potenza, gli Stati Uniti si trovano di fronte alla situazione di terzo livello e dunque al dover scegliere se :  
- convivere con la nuova potenza egemone,
- allearsi con lei, 
- o attaccarla unilateralmente.
 
Obama sta verificando uno dopo l’altro i livelli della Grande Strategia, e non vuole prendere decisioni premature che potrebbero rivelarsi più pericolose del previsto.
 
Dopo gli attacchi dell’11 settembre, Bush si trovò costretto a passare velocemente alla fase tre. La prima fase infatti era del tutto inattuabile; la seconda anche, perché, al di là della solidarietà, il numero di alleati capaci di mettere in atto una strategia efficace era minimo – anche la Gran Bretagna e l’Australia non erano sufficientemente determinanti. L’Europa non ha potuto sostenere gli Stati Uniti non per mancanza di volontà, ma per mancanza di potere e di capacità. Bush è stato quindi costretto ad agire unilateralmente per mancanza di alternative. Scegliendo di intervenire militarmente, l’ex presidente intendeva deliberatamente creare il caos in Medio Oriente per poi formare nuove alleanze in un secondo momento sulle ceneri della guerra. Così facendo ha invertito  le fasi della Grande Strategia.
 
Le scelte di Obama
 
Obama perciò adesso ha più spazio di scelta di Bush in medio Oriente, dove la potenza da contrastare è chiaramente l’Iran.
Nei confronti dell’Iran non esiste una soluzione regionale (primo livello).   
Israele avrebbe la capacità di colpire i siti nucleari iraniani distruggendoli, ma non potrebbe gestire la risposta iraniana - senza dubbio consistente nell’immediata chiusura dello stretto di Hormuz e/o nella destabilizzazione dell’Iraq.
Obama ha cercato di costruire una coalizione anti-iraniana per intimidire Teheran, ma la coalizione è fallita per l’opposizione di Russia e Cina (secondo livello).
 
Ad Obama quindi restano da operare le scelte di terzo livello relativamente all’Iran.
Una possibile scelta è quella utilizzata da Nixon in Cina, ovvero allearsi con l’Iran contro l’influenza russa ed accettare la sua potenza nucleare cercando di mantenere l’equilibrio regionale attraverso una combinazione di cooperazione e deterrenza. Un’altra scelta  prevede l’intervento militare.
La scelta quindi è tra alleanza o guerra – o inazione e abbandono della regione nelle mani dell’Iran.
Obama sta tergiversando nella speranza che gli eventi interni iraniani evolvano in una maniera positiva per gli Americani e che le difficoltà economiche della Russia la indeboliscano al punto tale da renderla più mansueta e incline a collaborare sul tema Iran. Obama sta prendendo tempo prima di prendere la decisione finale.
 
In Afghanistan Obama, che si è trovato immerso nel pieno della fase tre, sta cercando di ritornare alla fase uno e sta quindi provando a far emergere una coalizione locale capace di neutralizzare il potenziale bellico del paese. Washington continua a negoziare con i Talebani e cerca costantemente di rafforzare le varie fazioni in Afghanistan senza aumentare il numero dei soldati. L’inverno è alle porte, quindi il conflitto diminuirà d’intensità. È comunque chiaro che Obama anche in questo caso sta cercando di guadagnare tempo, sperando che il tempo giochi a suo favore.
 
Si può quindi affermare che la politica estera di Obama non è né così originale come affermano i suoi sostenitori, né così negativa come sostengono i suoi oppositori, ma segue passo passo, come un manuale, la Grande Strategia dei grandi imperi. L’amministrazione statunitense vuole minimizzare i rischi,  cercando di imporre soluzioni al minor costo possibile, il più tardi possibile.
 
È interessante notare che Obama, indipendentemente dalle scelte che compirà, si è allineato perfettamente alla logica imperiale che ha dominato la politica estera americana sin dagli anni ’30 del secolo scorso. Gli imperi d’altronde non vengono creati a tavolino – Hitler e Napoleone non l’hanno capito e hanno tentato di farlo, pagandone le conseguenze – ma scaturiscono da eventi e situazioni geopolitiche ed economiche reali.
 
Gli Americani in passato hanno sempre cercato di guadagnare tempo prima di intervenire militarmente e hanno aspettato che minacce, bluff e ricatti economici sortissero qualche effetto: la guerra fredda ne è il maggiore esempio.
 Il presidente statunitense per ora non sa ancora cosa fare, e le sue scelte dipenderanno dalle circostanze che si verranno a creare. Obama sta applicando alla lettera la Grande Strategia americana, lasciando che gli eventi continuino a fluire finché la situazione appare tollerabile.
 
Questa strategia però ha spesso condotto anche alla guerra, come nel caso di Wilson, Roosevelt, Truman, Johnson e Bush. L’immobilità dell’amministrazione Clinton ha permesso ad al Qaeda di organizzarsi e colpire gli Stati Uniti. Questa non è una critica a Clinton, perché da sempre gli Stati Uniti cercando di prendere tempo, finché il peggio pare possa essere evitato. A volte questo conduce alla guerra, a volte la evita.
Se alla fine in Iran ci sarà la guerra, gli Americani avranno senz’altro un ruolo decisivo, ed anche se non riusciranno a creare la pace riusciranno comunque ad annientare la potenza in ascesa.
 
Ed è su questa capacità che si fonda l’impero.  
 
 

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