Il fallimento morale di Human Rights Watch

13/11/2009

E la confusione della linea di distinzione tra democrazie e dittature.

Il 20 ottobre 2009 Robert L. Bernstein, cofondatore ed ex direttore dell’organizzazione non governativa Human Rights Watch dal 1978 al 1998, ha pubblicato sul New York Times un articolo molto critico dell’organizzazione. L’editoriale di Bernstein segue la pubblicazione di un rapporto di NGO Monitor che mostra la parzialità e scarsa attendibilità di Human Rights Watch sul Medio Oriente.

NGO Monitor sottolinea che il fallimento morale di Human Rights Watch consegue al desiderio di ottenere fondi dall’Arabia Saudita e allo smascheramento della sua divisione mediorentale, dominata da attivisti antisraeliani come Sarah Leah Whitson e Joe Stork. Anche il principale analista militare dell’organizzazione, Michael Garlasco, responsabile di molte delle affermazioni utilizzate per condannare Israele, si è scoperto essere un grande collezionista di memorabilia nazisti. 

Recentemente Human Rights Watch ha giocato un ruolo di guida nell’esercitare pressioni in nome dello screditato rapporto Goldstone. Lo stesso Richard Goldstone è stato un membro del consiglio direttivo di Human Rights Watch fino a che non è stato costretto a dimettersi proprioquando NGO Monitor ha segnalato il suo conflitto di interesse. Bernstein esordisce ricordando la missione originaria di HRW: “ produrre l’apertura delle società chiuse, difendere le libertà basilari e sostenere I dissidenti”. Recentemente invece, HRW ha emesso rapporti sul conflitto arabo israeliano che “aiutano coloro che vogliono trasformare Israele in uno stato paria”. A perseguire questo scopo sono proprio regimi dittatoriali e gruppi terroristici mossi da un ideologia totalitaria, mentre Israele, per quanto soggetta a commettere errori e dunque ad essere criticata, resta una società aperta. La contraddizione tra l’attuale condotta dell’organizzazione e i suoi scopi originari è flagrante.

”In Human Rights Watch” scrive Bernstein “ abbiamo sempre riconosciuto che società aperte hanno colpe e commettono abusi, ma vedevamo che hanno la capacità di correggersi – attraverso un vigoroso dibattito pubblico, una stampa di opposizione e molti altri meccanismi che le incoraggiano ad emendarsi. Per questo motivo cercavamo di tracciare una netta linea di separazione tra il mondo democratico e quello non democratico, in uno sforzo di creare chiarezza sul tema dei diritti umani (…) Quando mi sono fatto da parte, nel 1998, Human Rights Watch era attiva in settanta paesi, per la maggior parte società chiuse. Ora l’organizzazione accantona sempre più spesso il cruciale distinguo tra società aperte e società chiuse”.

Sono proprio le prese di posizione di Human Rights Watch sul Medio Oriente a costituire l’esempio più evidente di questa tendenza. Infatti, “la regione è popolata da regimi autoritari con sconvolgenti precedenti in fatto di diritti umani”. Tuttavia, osserva Bernstein, anche in anni recenti Human Rights Watch ha emesso “molte più condanne di Israele che di ogni altro paese della regione”.

Questo nonostante il fatto che “in Israele, che ha una popolazione di 7,4 milioni di abitanti, si trovano almeno ottanta organizzazioni per i diritti umani, una vibrante stampa libera, un governo democraticamente eletto, un sistema giudiziario che spesso si pronuncia contro il governo, un dinamico mondo accademico, molteplici partiti politici e, a giudicare dall’ammontare dei servizi giornalistici, un numero di giornalisti per abitante probabilmente più alto che qualunque altro paese al mondo, molti dei quali vi si trovano espressamente per occuparsi del conflitto israelo-palestinese”. Per contro “ il regime iraniano e quelli arabi governano circa 350 milioni di persone, e la maggior parte di essi rimangono brutali, chiusi e autocratici, consentendo solo un dissenso limitato o proibendolo del tutto. La triste condizione dei loro cittadini, che potrebbero trarre il massimo beneficio dal tipo di attenzione che può essere data da una grande e ben finanziata organizzazione internazionale di difesa dei diritti umani, è ignorata, mentre la divisione mediorientale di Human Rigts Watch prepara rapporti su rapporti riguardo a Israele”.
Alla perdita della distinzione morale tra democrazie e regimisi aggiunge l’incapacità di formulare un giudizio equo sugli scenari di guerra. ”Israele”, ricorda Bernstein “è stato ripetutamente attaccato da Hamas e Hezbollah, organizzazioni che cercano deliberatamente di colpire i civili israeliani e usano la propria stessa popolazione come scudo umano. Questi gruppi sono sostenuti dal governo dell’Iran, che ha apertamente dichiarato la sua intenzione non solo di distruggere Israele, ma anche di uccidere gli Ebrei ovunque. Questo incitamento al genocidio è una violazione della convenzione per la prevenzione e la punizione del crimine di genocidio”. Tuttavia, è “ Israele, ripetutamente vittima di aggressione” che “si trova di fronte al punto culminante del biasimo da parte di Human Rigts Watch”. Le cause di questo giudizio sbilanciato vanno ricercate nella mancanza di un’analisi del contesto politico degli eventi bellici e nella mancanza di un vaglio critico delle testimonianze. Human Rights Watch “sipreoccupa di come la guerra viene combattuta, non delle sue motivazioni. Certamente anche le vittime di un’aggressione sono vincolate dalle leggi di guerra e devono fare tutto il possibile per minimizzare le vittime civili. Tuttavia vi è una differenza tra gli errori commessi agendo per autodifesa e quelli perpetrati intenzionalmente”.

D’altro canto, si chiede Bernstein “come fa Human Rights Watch a sapere che queste leggi sono state violate? A Gaza o altrove, dove non c’è accesso al campo di battaglia o ai leader militari e politici che prendono le decisioni strategiche, è estremamente difficile formulare giudizi definitivi sui crimini di guerra. I rapporti spesso si basano su testimoni le cui storie non possono essere verificate e che possono deporre per conseguire vantaggi politici o per paura di rappresaglie da parte dei loro stessi governanti”. Nonostante questo, vi sarebbe la possibilità di formulare o di accedere a giudizi più obiettivi, basati su una valutazione scrupolosa dello scenario bellico nel quale i soldati israeliani operano e delle loro regole operative: “(..), il Colonnello Richard Kemp, l’ex comandante delle Forze britanniche in Afghanistan ed esperto di guerra, ha detto che le Forze di difesa israeliane a Gaza “hanno fatto più di ogni altro esercito nella storia della guerra per salvaguardare i diritti dei civili in zona di combattimento” ”.
In conclusione, per Bernstein “solo ritornando alla sua missione fondativa e allo spirito di umiltà che l’aveva animata Human Rights Watch risorgerà come forza morale in Medio Oriente e nel mondo. Se non riuscirà a farlo, la sua credibilità sarà seriamente compromessa e il suo importante ruolo nel mondo sarà significativamente ridotto”.

In realtà, la perdita di autorità morale di Human Rights Watch e di altre organizzazioni non governative impegnate nella difesa dei diritti umani appare connessa a un problema più generale.
I finanziamenti sauditi e l’indulgenza verso i crimini delle dittature sono infatti la manifestazione di un paradosso che non riguarda solo le organizzazioni non governative, ma anche la comunità internazionale degli stati, a partire da organismi delle Nazioni Unite come il Consiglio dei diritti umani, che è stato presieduto dalla Libia, nonostante in tale paese viga la dittatura personale del colonnello Gheddafi, e del quale sono membri, ad oggi, paesi non democratici come Cuba, la Cina, l’Arabia Saudita, che dei diritti umani sono violatori sistematici e abituali. Gli stessi stati che più attentamente dovrebbero essere sottoposti allo scrutinio di un organismo volto alla tutela dei diritti umani, dunque, finiscono per condizionarne l’attività.Nel 2007 il Consiglio ha depennato Bielorussia e Cuba dalla lista dei paesi meritevoli di una particolare sorveglianza, lasciandovi il solo Israele.Attraverso una sproporzionata attenzione negativa a Israele, la causa dei diritti umani èefficacemente “dirottata” dalle dittature, che in questo modo proteggono se stesse. Ciò è reso possibile dal fatto che i criteri di accesso agli organismi delle Nazioni Unite non operano nessuna discriminazione tra democrazie liberali e dittature, tra stati di diritto e regimi di terrore. Anche in questo casoè l’assenza di una netta linea di separazione tra il mondo democratico e quello della dittature, denunciato da Bernstein a proposito di Human Rights Watch, a costituire la radice del problema. 

Un’incapacità di distinguere che non riguarda soltanto i rapporti internazionali, ma anche le dinamiche politiche interne degli stati e la natura delle forze che prendono parte alle competizioni elettorali. Quando tali forze mirano a conquistare il potere ottenendo la maggioranza dei voti, per poi sopprimere le libere elezioni ed instaurare regimi dittatoriali, si dovrebbe riconoscere alle democrazie il diritto di difendere se stesse da chi ne sfrutta le regole per distruggerle. La vittoria delFronte islamico in Algeria nel 1991, per esempio, avrebbe condotto all’affermazione di un totalitarismo islamista, se il processo elettorale non fosse stato bloccato al primo turno.

Ma anche lo svolgimento di elezioni regolari e il rispetto del principio di maggioranza sono condizioni necessarie, ma non sufficienti, perché un ordinamento possa essere riconosciuto come democratico e liberale. Se le forze politiche che competono alle urne dispongono anche di milizie, bracci armati, gruppi di fuoco terroristici - allora il loro confronto è potenzialmente non pacifico, gli elettori hanno ragione di temere per la propria incolumità e le elezioni, anche se eventualmente prive di brogli ed episodi di violenza, non possono essere considerate libere. Inoltre vi sono forze politiche che promuovono l’odio razziale e religioso, il terrorismo, le guerre di aggressione, il genocidio. Si oppongono frontalmente ai valori fondativi e alla stesse possibilità di esistenza delle democrazie liberali. Nella storia e nella cronaca si possono trovare numerose esemplificazioni di entrambe le circostanze: il Partito Nazionalsocialista conquistò il potere in Germania negli anni 30 con libere elezioni, Hamas controlla la Striscia di Gaza dopo una vittoria elettorale e un colpo di stato, Hezbollahè membro in Libano del neo-costituito governo di unità nazionale, pur avendo subito una sconfitta elettorale.
La carta costitutiva di Hamas, responsabile di sanguinosi attentati suicidi contro i civili israeliani, chiede la distruzione di Israele, aderisce a teorie cospiratorie ricavate dal falso antisemita “Protocolli dei Savi Anziani di Sion”, preconizza lo sterminio totale degli Ebrei nel giorno del giudizio. Hezbollah, impregnato di una ideologia antisionista e antisemita del tutto simile a quella del gruppo palestinese e di un identico culto della morte e del “martirio”, tiene di fatto in ostaggio la sicurezza nazionale libanese.E’ la milizia sciita, con il pretesto della “resistenza”, a decidere della pace e della guerra con Israele, non il governo di Beirut.


Quando si tenta di legittimare come interlocutori obbligati della comunità internazionale gruppi terroristici dall’ideologia apertamente antisemita come Hamas ed Hezbollah, in base al fatto che sarebbero espressione di una volontà “democratica”, si dimostra in sostanza di aver dimenticato, o di voler deliberatamente distorcere, lo stesso significato della parola democrazia.

 

 

   

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