Luci e ombre
sul futuro dell'Afghanistan

03/12/2009

3 dicembre 2009   Il primo dicembre 2009 dall’Accademia di West Point il presidente statunitense Barack Obama ha parlato del futuro della guerra in Afghanistan, dichiarando che gli Stati Uniti invieranno a breve un contingente di 30.000 uomini nel tentativo di estirpare il “cancro di al Qaeda”, schiacciare la ribellione talebana e pacificare finalmente la regione. Obama ha poi aggiunto che le truppe inizieranno a ritirarsi già a partire dal 2011.   La strategia.   La strategia di Obama è incentrata su tre obiettivi: 1) impedire ad al Qaeda di erigere nuovi santuari nella fragile zona di confine fra Afghanistan e Pakistan; 2) fermare la ribellione dei Talebani attraverso l’aumento delle truppe sul terreno; 3) creare un apparato civile e militare afgano capace di contrastare autonomamente i jihadisti e difendere lo stato (nation building).   Le scelte di Obama sono in linea con le richieste del generale McChrystal, comandante delle truppe in Afghanistan, che da tempo lamentava la mancanza di forze sufficienti sul terreno.   Il presidente americano ha sottolineato che il successo delle azioni militari statunitensi è inevitabilmente legato alla collaborazione con il Pakistan - che da alcune settimane combatte contro i Talebani nella valle di Swat e nel Waziristan meridionale. Ma, come sottolineano Turfail Ahmad (direttore del progetto Urdu-Pashtu Media Project del MEMRI) e Yigal Carmon (Presidente del MEMRI) in un recente articolo, queste affermazioni non tengono conto dell’ambiguità della politica pakistana verso i jihadisti. Non va infatti dimenticato che la maggior parte delle infrastrutture di al Qaeda non si trova in Afghanistan, dove stazionano le truppe statunitensi, bensì al di là del confine, in Pakistan, perché il governo e l’esercito pakistano continuano a comportarsi in maniera bivalente nei confronti dei ribelli, effettuando distinzioni fra i jihadisti “bravi” – quelli che servono gli interessi del Pakistan, cioè i Talebani afgani – e quelli “cattivi” – i Talebani pakistani che si sono rivoltati al potere di Islamabad.   La politica del Pakistan e le preoccupazioni dell’India.   Gli Stati Uniti stanno esercitando sempre maggiore pressione sul governo pakistano affinché prenda misure serie contro i terroristi di al Qaeda: Washington esige che l’offensiva militare pakistana non sia diretta esclusivamente contro solo Tehrik-i-Taliban, che hanno deliberatamente mosso guerra al governo pakistano, ma anche contro gli altri Talebani che operano nelle Aree Tribali e che continuano a rinvigorire la ribellione in Afghanistan – la rete Haqqani, i Talebani guidati dal mullah Omar, i gruppi legati a Maulvi Nazir e a Hafiz Gulf Bahadir, e così via.   Al di là delle dichiarazioni pubbliche, gli Stati Uniti in privato hanno lanciato un ultimatum al Pakistan: se non rinuncerà alla collaborazione con una parte dei ribelli, gli Americani interverranno su suolo pakistano unilateralmente con l’aviazione per radere al suolo le cellule nemiche – come avvenuto nel 2008. Ma per venire incontro alle richieste degli Stati Uniti, il Pakistan dovrebbe rinunciare alla logica della “profondità strategica”, perno della sua politica estera sin dalla nascita dello stato  – strategia che comporta l’infiltrazione di gruppi armati fedeli al Pakistan dentro ai confini dell’ India (rivale storico) e in Afghanistan, per aumentare l’influenza del Pakistan nella regione.   Nell’ottica pakistana la decisione di ritirare le truppe NATO dall’Afghanistan a partire dal 2011 è ovviamente tutt’altro che rassicurante: occorrerà combattere per alcuni mesi, per poi tornare a dover convivere con i Talebani, senza l’aiuto dell’esercito NATO. Perciò con ogni probabilità Islamabad continuerà a chiudere un occhio sulle attività di alcuni gruppi jihadisti per non inimicarseli e per tornare a servirsene eventualmente in futuro.   Il governo pakistano metterà comunque a disposizione degli Stati Uniti le informazioni segrete raccolte  dall’ISI (servizi segreti pakistani) in modo che possano infiltrare al Qaeda e i Talebani e annientarne il potenziale esplosivo. Più gli Stati Uniti faranno affidamento sull’ISI, più si ridurrà il rischio di un intervento armato statunitense su suolo pakistano, che potrebbe irritare l’esercito pakistano (contrario alle ingerenze esterne) e mettere a repentaglio la già fragile stabilità del governo. In cambio del servizio reso Islamabad, che teme l’accerchiamento, chiederà agli Stati Uniti di porre freno alle attività dell’India in Afghanistan.   Nuova Delhi dal canto suo ha pubblicamente dichiarato di appoggiare la strategia di Obama, pur con qualche perplessità. Infatti l’India, data la sua vicinanza al teatro di guerra, è preoccupata da quello che avverrà all’indomani del ritiro delle truppe statunitensi. Gli Indiani sperano ancora che in qualche modo Washington riesca a convincere il Pakistan a smettere di servirsi dei terroristi in chiave anti-indiana – non soltanto in Kashmir, ma anche all’interno dell’India stessa.   La carta dei terroristi.   Anche i terroristi osservano con attenzione le mosse di Stati Uniti e Pakistan, e non rimarranno di certo a guardare. La migliore carta che hanno a disposizione è quella di incendiare la frontiera fra India e Pakistan e far scoppiare una nuova guerra - ad esempio intensificando le incursioni terroristiche in territorio indiano in modo da costringere Nuova Delhi a reagire. In tal caso Islamabad sarebbe costretta a spostare una parte delle truppe sulla frontiera orientale, lasciando così maggiore libertà d’azione ai ribelli nella regione nordoccidentale (vedi mappa a lato).    Di certo l’ultima cosa che il Pakistan vorrebbe affrontare  in questo momento è un nuovo conflitto con l’India. Per evitarlo Islamabad e Nuova Delhi potrebbero collaborare e scambiarsi informazioni attraverso un canale statunitense, ma il rischio di attentati rimane comunque alto. L’India dal canto suo sa che scatenando una guerra rischierebbe di destabilizzare il Pakistan e di farlo cadere nelle mani di una giunta filo-jihadista, aumentando così il rischio di uno scontro nucleare – proprio per questa ragione già nel novembre del 2008, dopo gli attentati di Mumbai, Nuova Delhi non aveva reagito.   La reazione in Europa.   Il presidente dell’UE ha reagito positivamente alle dichiarazioni di Obama, affermando che l’Unione Europea è pronta a fare la sua parte e ad aiutare gli Stati Uniti. Il segretario generale della NATO Anders Fogh Rasmussen ha poi aggiunto che la NATO “invierà 5.000 nuove unità” a breve. Queste previsioni però potrebbero essere troppo ottimistiche.   Infatti, a parte alcune conferme immediate – la Polonia ha già fatto sapere che invierà 600 soldati, la Gran Bretagna 500, la Repubblica Ceca 100, l’Albania 85 – le altre nazioni non hanno ancora preso una decisione definitiva, perché devono far fronte a problemi interni: ·         la crisi economica: molti paesi europei faticano ad uscire dalla crisi, e non possono quindi permettersi di spendere  tanto per la guerra in Afghanistan; ·         l’opinione pubblica contraria: in linea di massima l’opinione pubblica non è favorevole all’aumento dell’impegno militare, e quindi i governi premono per avere un’exit strategy prima di inviare nuovi soldati.   Gli Stati Uniti hanno cercato di coinvolgere la Turchia e spingerla a fare uno sforzo maggiore in Afghanistan, dato che attualmente il suo  livello di coinvolgimento è molto al di sotto della media dei paesi della NATO. Resta da vedere che cosa deciderà Ankara in materia.   La Russia e le vie di rifornimento.   Anche il Cremlino ha definito il discorso di Obama “positivo”. La NATO sta per firmare un accordo con la Russia per il trasporto dei rifornimenti in Afghanistan attraverso il territorio russo. Inizialmente Washington avrebbe preferito aggirare la Russia e spedire le merci per altre vie, ma per ragioni economiche ha deciso di cambiare strategia. Dal 2007 al 2009 con la NATO ha ispezionato il tragitto e ha scoperto che i costi di trasporto in Russia sono decisamente più accessibili – ad esempio la spedizione di un container da 40 piedi attraverso la Russia costa ca. 6.700 dollari contro gli 8.700-9.700 attraverso il Pakistan.   La Russia dal canto suo ha deciso di cooperare dopo che gli Stati Uniti hanno rinunciato all’installazione del sistema antimissili balistici in Polonia. Mosca non può che trarre benefici dalla collaborazione con gli Stati Uniti: 1)      economicamente parlando, Mosca incasserà molto denaro dal trasporto dei rifornimenti verso l’Afghanistan – molto utile ora che l’economia del paese versa in condizioni pessime; 2)      l’accordo permetterà alla Russia di migliorare la sua immagine di fronte all’Europa – cosa fondamentale per la strategia russa, specialmente ora che il Cremlino sta cercando di avvicinarsi alla Francia e alla Germania; 3)      dopo l’accordo, la NATO sarà decisamente più ricattabile – e il Cremlino si servirà senz’altro di quest’arma per conseguire i propri obiettivi strategici (in Ucraina, Georgia, etc.)   Mosca ha interesse a contenere la minaccia jihadista e a evitare che si espanda in territorio russo. In teoria con l’aumento delle truppe i ribelli cercheranno di scappare a Nord per ritornare in Afghanistan solo in un secondo momento. Ma se la Russia – con l’aiuto dei paesi dell’Asia centrale - riuscisse a bloccarli in tempo, i jihadisti si troverebbero in trappola e le probabilità di vittoria in Afghanistan aumenterebbero notevolmente.   Funzionerà il “surge” per stabilizzare l’Afghanistan?   La risposta è: no, specialmente se i Talebani si ritirano oltre confine in Pakistan, perché prima o poi ritorneranno. A meno che gli Stati Uniti e la NATO non si accontentino di ottenere la testa di al Qaeda, per poi andarsene e lasciare che gli stati della regione se la vedano da soli. Questo potrebbe invece essere un obbiettivo raggiungibile in un anno.   Non dobbiamo dimenticare che l’interesse degli Stati Uniti e della NATO è creare una situazione che non presenti minacce dirette per i territori dei paesi occidentali, né per la libera navigazione sui mari, né nei cieli. L’Afghanistan oggi, per quanto instabile e turbolento, è un problema regionale, non globale. Destinare all’Afghanistan tante risorse e tanto impegno è proprio quello che fa gioco all’Iran e ai gruppi qaedisti in Yemen e Sudan.  Ora che la NATO è profondamente invischiata in Afghanistan e Iraq, i suoi nemici hanno spostato la minaccia sui mari: sul Golfo Persico e sul Golfo di Aden, cioè proprio sulla principale arteria delle rotte marittime internazionali. È un attacco alla giugulare, e questo può davvero essere un pericolo mortale.        A cura di Laura Camis de Fonseca e Davide Meinero    

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