L'Iran
militarizzato

23/02/2010

di Amir Taheri, pubblicato su The Wall Street Journal   15 febbraio 2010   A prima vista il leader supremo dovrebbe essere un uomo felice. Infatti il movimento filo-democratico che aveva promesso di dare una svolta alla situazione lo scorso giovedì, in occasione del 31° anniversario della Rivoluzione, non è riuscito a raggiungere l’obiettivo. Il regime per fermare le proteste dei manifestanti ha schierato nelle strade di Teheran decine di migliaia di Guardie della Rivoluzione provenienti dai quattro angoli del paese.   Tuttavia il messaggio rivolto da Khamenei ai sostenitori del regime è stato piuttosto tiepido. Perché? La verità è che Khamenei ha molto di cui preoccuparsi. Per la prima volta infatti il regime ha dovuto militarizzare Teheran ed erigere posti di blocco a tutte le entrate. Per difendere la capitale dai manifestanti il regime è stato costretto ad abbandonare le celebrazioni per il 31° anniversario in molte altre parti del paese - solo nel 20% delle città iraniane e nel 9% dei villaggi sono state organizzate le celebrazioni.   Negli ultimi dieci anni il regime si è trasformato da teocrazia dispotica a dittatura militare. All’estero le Guardie della Rivoluzione conducono una politica sempre più aggressiva per estendere l’egemonia della Repubblica Islamica nelle regioni in cui si viene a creare un vuoto di potere – approfitteranno anche  della situazione che si verrà a creare in Iraq e in Afghanistan dopo il ritiro degli Stati Uniti, finanziando gruppi terroristici fedeli. Peraltro i Pasdaran non hanno nessuna intenzione di scendere a compromessi sul programma nucleare, dato che sono loro ad occuparsene.   La strategia del dialogo avviata dall’amministrazione Obama – rilanciata ancora domenica scorsa dal segretario di stato Hillary Clinton durante una visita in Qatar – appare surreale. Una cosa è certa: il regime, attualmente dominato dalle Guardie della Rivoluzione, farà di tutto per dotarsi del nucleare.   Ma Khamenei è preoccupato anche per altre ragioni. Secondo il Ministero del Lavoro negli ultimi dodici mesi si sono “volatilizzati” più di un milione di posti di lavoro grazie alle politiche populiste del presidente Ahmadinejad, e nello stesso periodo la valuta iraniana, il rial, ha perso un quarto del suo valore rispetto alle altre valute della regione.   Molte aziende energetiche straniere che collaborano da molto tempo con la Repubblica Islamica hanno iniziato a capire che il regime è piuttosto vulnerabile, se non sul punto di crollare. Paesi come la Spagna, l’Austria, la Grecia, Dubai e la Malesia, che hanno sempre aiutato l’Iran ad aggirare le sanzioni, stanno iniziando a cambiare politica. Gli scambi commerciali fra UE e Iran sono diminuiti del 13% nel 2009, e ora anche la Cina ha iniziato a mostrare segnali di preoccupazione – infatti i colloqui per la costruzione di dieci nuove raffinerie in Iran sono stati momentaneamente congelati.   Per tre decenni le democrazie occidentali – compresi gli Stati Uniti - hanno cercato di persuadere il regime a cambiare atteggiamento. L’Occidente  avrebbe chiuso un occhio sulla repressione interna se Teheran avesse mantenuto un basso profilo all’estero. Ma non ha funzionato. Forse è giunta l’ora di pensare al cambio di regime. Anche gli amanti della realpolitik devono prendere atto che l’establishment khomeinista, ormai dominato dalle Guardie della Rivoluzione, non è più l’unico attore sulla scena iraniana. Ora c’è un altro importante attore: il movimento popolare che continua a lottare per il cambiamento. Anche i più ferventi e cinici sostenitori della realpolitik farebbero un errore ignorando i democratici e non appoggiandoli in modo chiaro e deciso.   Traduzione: Davide Meinero  

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