Cambio di strategia in Afghanistan

30/09/2010

Da un’analisi di George Friedman per Strategic Forecast, 30 settembre 2010.

Per una valutazione della guerra in Afghanistan è essenziale tener conto della natura della guerriglia. I guerriglieri talebani sono afghani, quindi non se ne andranno, qualunque cosa accada. Al contrario le truppe della coalizione vengono da fuori e hanno una casa cui tornare, per questo sono in svantaggio. Non avendo alternative, i talebani cercano di stancare il nemico per spingerlo ad abbandonare la lotta.

Tatticamente la guerriglia è elusiva: piccoli gruppi operano in un terreno ben noto badando a non farsi individuare, stringono alleanze con civili per averne equipaggiamento e informazioni sulle mosse delle forze nemiche, evitano scontri in campo aperto e colpiscono quando il nemico non se l’aspetta. Lo scopo della guerriglia non è guadagnare terreno, ma sopravvivere, lanciare attacchi mordi e fuggi e provocare uno stillicidio continuo di vittime al nemico. 

La forza di occupazione ha truppe convenzionali, può vantare una maggiore potenza di fuoco, migliori risorse e un alto livello di organizzazione. Se individua il nemico e lo attacca prima che scappi, può infierirgli un colpo mortale, ma raramente vi riesce per mancanza di informazioni. Inoltre i guerriglieri non stanno mai tutti insieme e riescono a disperdersi prima che gli occupanti riescano a dispiegare le truppe.

Gli occupanti di solito vincono in battaglia, ma difficilmente vincono la guerra. I guerriglieri sopportano bene le sconfitte e – se non vengono eliminati totalmente – sono sempre in vantaggio.

In una guerra asimmetrica e non convenzionale, la guerriglia è strategicamente avvantaggiata.

 

Gli obiettivi statunitensi in Afghanistan

Nel 2001 Washington mosse guerra all’Afghanistan per sradicare al Qaeda dall’Afghanistan ed evitare che attaccasse di nuovo gli Stati Uniti. Ma anche se l’Afghanistan venisse pacificato, la minaccia del terrorismo islamico transnazionale sopravvivrebbe, perché ormai ha messo radici in Pakistan, Iraq, Yemen, Maghreb, Somalia, etc.

I jihadisti internazionali adottano tecniche di guerriglia, e non hanno intenzione di rinunciare alla lotta – almeno per ora. Trattandosi di un’insurrezione globale è molto complessa e difficile da controllare.  Una cosa però è certa: i governi del Maghreb, del Medio Oriente e del Sudest Asiatico non vogliono che i jihadisti fomentino il caos sul loro territorio. Invece il territorio in cui si svolge la guerriglia islamista transnazionale non comporta la possibilità di una minaccia esistenziale per gli Stati Uniti.  Sebbene gli attentati mietano vittime fra i civili, non minacciano l’integrità territoriale degli Stati Uniti né tantomeno le abitudini degli Americani. Ovviamente rappresentano un pericolo da cui difendersi, ma non una minaccia strategica.

Nietzsche scrisse che “la più alta forma di stupidità umana è dimenticarsi di quello che volevamo fare all’inizio”. Gli USA volevano distruggere al Qaeda, ma ora che è ‘migrata’ altrove non ha più senso continuare a combattere in Afghanistan.

Però non è possibile ritirarsi di punto in bianco dall’Afghanistan, perché così facendo si rischierebbe di destabilizzare l’intero mondo islamico. Gli Stati Uniti finora sono riusciti ad evitare che al Qaeda provocasse rivolte contro i regimi esistenti per rimpiazzarli con regimi jihadisti, proprio dimostrando di essere pronta a intervenire militarmente se necessario. Me se Washington ritirasse le truppe troppo in fretta la fitta rete di relazioni intessute negli ultimi anni con i regimi locali verrebbe meno e la situazione precipiterebbe nel caos. 

Il presidente degli Stati Uniti si trova di fronte a un dilemma:

·      non può ordinare il ritiro immediato delle truppe perché il mondo islamico verrebbe trascinato nel caos;

·      non può rimanere impantanato in Afghanistan a lungo perché così facendo permetterebbe a Cina e Russia di muoversi sullo scacchiere internazionale liberamente.

 

La soluzione americana.

A quanto pare gli USA stanno pensando di ‘pakistanizzare’ la guerra, ovvero di coinvolgere il Pakistan negli affari afgani.

In passato gli USA hanno cercato (con scarsi risultati) di tenere separati i Talebani afgani e il Pakistan, ma il Pakistan non ha mai interrotto del tutto le relazioni – anche se ha dovuto limitarle a causa dell’opposizione di Washington. Di recente però i legami fra il Pakistan e i Talebani si sono rivelati utili per creare un canale di comunicazione con i Talebani.  

Il Pakistan è un alleato di cui gli USA hanno bisogno sia per frenare l’espansionismo cinese sia per contenere l’ascesa dell’India. I Talebani vogliono governare l’Afghanistan e Washington non si opporrà, a patto che rinuncino ad appoggiare il terrorismo internazionale. Tuttavia il ritiro deve avvenire in modo da permettere agli USA di mantenere un certo livello di influenza sulla situazione: il Pakistan può offrire questa opportunità.

Il Pakistan probabilmente non si tirerà indietro per diverse ragioni:

1)  ha bisogno dell’aiuto degli Stati Uniti per difendersi dall’India;

2)  non vede l’ora di pacificare l’Afghanistan per acquisire profondità strategica a Ovest;

3)  ha bisogno di far cessare le operazioni dell’esercito americano su suolo pakistano, che rischiano di destabilizzare il governo. Ieri infatti il Pakistan ha chiuso il Khyber pass, attraverso cui transitano i rifornimenti per l’esercito occidentale in Afghanistanin protesta per i bombardamenti che dall’Afghanistan si riversanosulle zone di frontiera pakistane.    

Aiutando gli USA a lasciare l’Afghanistan senza perder la faccia Islamabad si guadagnerebbe un ruolo di prim’ordine nel mondo islamico, con grande soddisfazione anche degli USA.

Gli Stati Uniti non possono sconfiggere i Talebani. Per questo il ritiro è ormai una necessità: chiaramente questo cambio di strategia comporta grandi difficoltà e incognite politiche, ma non vi sono alternative.

 

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