USA e Pakistan quali rapporti ora?

19/05/2011

15 maggio 2011


È ormai appurato che Islamabad non ha collaborato alla cattura di Bin Laden, e negli ultimi giorni le proteste pakistane nei confronti dell’operazione degli USA e dell’unilateralismo americano sono state molto intense.

Una eventuale rottura fra Washington e Islamabad avrebbe ripercussioni importanti  per entrambi i paesi:

1)   il Pakistan perderebbe l’alleato su cui conta per contenere possibili intenzioni aggressive dell’India ;

2)   gli USA perderebbero l’alleato su cui contano per contenere i Talebani in Afghanistan.

Per capire meglio la situazione, occorre fare un passo indietro e analizzare le implicazioni geo-politiche dell’alleanza fra USA e Pakistan.

 

Dalla guerra fredda alla guerra al terrorismo

Durante la guerra fredda gli USA hanno usato le appartenenze religiose per creare tensioni nel blocco comunista, ad esempio aiutando la resistenza ebraica in URSS, i Cattolici in Polonia e i Musulmani in Afghanistan. In Afghanistan gli USA, in collaborazione con i Sauditi e i Pakistani,  armarono e finanziarono le milizie islamiste (i Mujaheddin) contro i Sovietici. Islamabad aveva legami storici con la resistenza afgana per via dei comuni tratti etnici,  perciò i servizi segreti pakistani (ISI) strinsero un’alleanza con i jihadisti afgani.

Lavorando  a stretto contatto con gli islamisti, alcune sezioni dell’ISI vennero ‘contagiate’ dall’ideologia jihadista. Quando i Sovietici gettarono la spugna e si ritirarono, Washington lasciò la regione senza preoccuparsi del futuro dell’Afghanistan, che precipitò presto in uno stato di guerra civile. Allora l’ISI si alleò con i Talebani – eredi dei Mujaheddin – aiutandoli a conquistare il potere nel 1996. Islamabad acquisì così profondità strategica in Afghanistan, e piena sicurezza sul confine occidentale.

L’alleanza fra USA e islamisti durò poco: dopo la vittoria, i Mujaheddin concentrarono l’attenzione contro altri nemici,  gli Americani in primis, specialmente dopo la prima guerra contro l’Iraq.  Gli islamisti infatti percepirono l’attacco a un paese mediorientale e la violazione della sovranità saudita come un’offesa all’islam. Inoltre al Qaeda, appena espulsa dal Sudan, approfittò della situazione per trasferire in Afghanistan il proprio quartier generale alleandosi con i Talebani ed entrando inevitabilmente in contatto con l’ISI, che aveva sempre offerto appoggio logistico ai Talebani.

Dopo l’11 settembre Washington chiese l’aiuto al Pakistan per la guerra contro i Talebani in Afghanistan, generando una profonda crisi nell’establishment pakistano: da un lato infatti Islamabad aveva assolutamente bisogno di Washington per controbilanciare l’India, suo nemico storico, che durante la guerra fredda si era allineata con i Sovietici. Dall’altra però non intendeva rompere del tutto con i Talebani per paura di perdere un alleato strategico nella regione.

 

La soluzione pakistana

Il Pakistan decise quindi di fare il possibile per agevolare gli Americani, senza però compiere azioni che avrebbero potuto causare ritorsioni contro il governo da parte di quei settori  interni legati indissolubilmente ai Talebani. Il governo pakistano con un equilibrismo magistrale incominciò a passare informazioni di intelligence agli Americani consentendogli di agire liberamente in territorio pakistano, purgò l’ISI degli elementi più radicali, ma evitò di chiudere tutti i canali con gli islamisti e di sradicare del tutto i santuari talebani in Pakistan.

Gli Americani erano al corrente delle difficoltà del Pakistan e chiusero un occhio perché non desideravano correre il rischio di vedere un nuovo colpo di stato  in Pakistan.  Washington peraltro aveva assolutamente bisogno dell’appoggio pakistano per trasportare i rifornimenti da Karachi all’Afghanistan attraverso il  Khyber Pass. Ma gli USA furono chiari su un punto: potevano chiudere un occhio sul doppiogioco del Pakistan, purché recidesse i legami con al Qaeda e collaborasse alla sua eliminazione. Il governo pakistano acconsentì, ma ben presto si rese conto che le informazioni su al Qaeda provenivano proprio da quei settori  dell’ISI che potevano diventare potenzialmente pericolosi per la stabilità del paese; perciò non sempre riuscirono a soddisfare le esigenze degli USA. Si venne così a creare una frattura di interessi, evidenziata pubblicamente nella cattura di Osama bin Laden.

Considerata la rivalità storica con l’India, Islamabad non può correre il rischio di scoprirsi anche sul confine occidentale per compiacere gli USA: Islamabad deve poter controllare l’Afghanistan per i propri interessi strategici di lungo periodo. 

Gli USA sembrano ormai consapevoli che non è possibile insediare a Kabul un governo filo-americano capace di tenere a freno gli islamisti, e intendono ritirarsi al più presto dalla regione. Con la morte di Bin Laden gli USA hanno una giustificazione in più per lasciare il paese, ma non possono abbandonare la regione senza prima organizzare il ritiro  – ovvero senza aver prima negoziato con il Pakistan sul futuro dell’Afghanistan.

Questo è solo l’ultimo dei paradossi in una guerra al terrore che non ha fine. Per combattere il terrorismo gli USA hanno bisogno dell’aiuto dei paesi islamici, soprattutto dei loro servizi segreti. Ma spesso i paesi musulmani, pur interessati a contenere la minaccia islamista, non sono pronti a impegnarsi fino in fondo per paura di essere destabilizzati al proprio interno dalle frange più estremiste che si sono insediate nelle istituzioni.

Perciò esistono solo tre soluzioni:

1)   o gli Stati Unti affinano le capacità dei  propri servizi segreti in modo da combattere la guerra al terrorismo senza l’aiuto di nessuno: compito quasi impossibile nella complessa dinamica del mondo islamico;

2)   oppure si accontentano della collaborazione soltanto parziale degli alleati islamici.

3)   Oppure Washington deve rassegnarsi al fatto di non poter vincere la guerra in Afghanistan né sradicare le organizzazioni islamiste.

 

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