La riforma economica in Indonesia
esige più centralizzazione

06/11/2012

 

L’Indonesia moderna è passata attraversi periodi alternativi di centralizzazione e di decentralizzazione, che riflettono i diversi interessi dell’isola centrale di Giava rispetto a quelli delle isole periferiche, ricche di risorse ma eterogenee per cultura e religione.

Dopo la caduta di Suharto nel 1998 si ebbe un periodo di decentralizzazione. I suoi 31 di governo dittatoriale centralizzato avevano creato gravi scompensi nei livelli di vita a Giava e nelle isole periferiche, ed il paese era pieno di tensioni e di insorgenze separatiste (Timor Est è il caso più noto). Il nuovo presidente Bacharuddin Habibie concesse larghe autonomie in campo fiscale, amministrativo e giudiziario alle diverse province. La calma tornò, l’economia riprese a crescere, basandosi fondamentalmente sull’esportazione delle risorse minerarie e del legname, non sull’industria di trasformazione.     

Ora questo tipo di sviluppo mostra i suoi limiti, mentre si presenta l’opportunità di creare una buona base manifatturiera nel paese grazie agli investimenti stranieri che lasciano la costa della Cina, dove i costi sono diventati troppo alti perché la manodopera comincia a scarseggiare, e cercano altri paesi con manodopera abbondante e risorse naturali utilizzabili in loco. L’Indonesia ha una popolazione di 250 milioni di abitanti, un alto tasso di natalità, abbondanti materie prime: le condizioni ideali per attirare grandi investimenti. Il governo ha sviluppato un piano pluriennale di sviluppo e di modernizzazione, chiamato MP3I, che ha attirato l’interesse di molte multinazionali. 

Ma ha due ostacoli da superare :

·      è un paese di isole scollegate fra di loro, per cui occorre costruire tante infrastrutture di trasporto e di comunicazione, che richiedono grandi investimenti da parte dello stato centrale;

·      l’attuale sistema decentrato limita sia le risorse sia i poteri decisionali del governo centrale.

Perciò il governo vorrebbe togliere il potere di concedere licenze per lo sfruttamento minerario ai governi provinciali e riportarlo nelle mani del governo centrale, ma per ora non ci riesce: i politici locali sono in rivolta, non vogliono perdere potere e denaro, e alle elezioni del 2014 l’attuale primo ministro corre il rischio di non essere rieletto. 

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