Il sistema dell’hukou
e la gestione macroeconomica della società cinese

06/03/2013

Nel 1740 in Cina vivevano circa 140 milioni di persone; nel 1949 la cifra era salita a 540 milioni e trent’anni più tardi si è toccato il miliardo. In altre parole, in meno di 250 anni la popolazione cinese è aumentata di circa sette volte. Negli Stati Uniti lo sviluppo della popolazione è stato ancor più veloce nello stesso periodo, ma è coinciso con la conquista dell’Ovest e l’aumento dei terreni coltivabili.

Invece il boom demografico cinese ha avuto luogo all’interno del medesimo spazio geografico: il territorio che è stato abitato e coltivato per di più di 2000 anni, la Cina “Han”. Il boom demografico cinese non è dipeso da migrazioni o espansioni, ma da innovazioni in agricoltura e nel campo dell’irrigazione che hanno favorito lo sfruttamento intensivo del terreno esistente. Attraverso piccole ma costanti migliorie le varie generazioni di agricoltori insediate lungo il delta dello Yangtze o nella piana della Cina settentrionale sono riuscite a produrre, negli stessi appezzamenti di terreno lavorati dai genitori, quantità sempre maggiori di granaglie. Questo ha permesso anche di crescere più figli che, a loro volta, avrebbero coltivato quella stessa terra in modo ancora più intensivo.

Questo processo ha però creato situazioni sempre precarie, facili a destabilizzarsi: un’ingente quantità di forza lavoro era costantemente sottoutilizzata, perché in eccesso rispetto ai terreni disponibili. In caso di sconvolgimenti ambientali o sociali (come quelli della fine del XIX secolo) questa massa di scontenti alla ricerca di mezzi di sussistenza più sicuri aumentava e minacciava la tenuta della dinastia. La caduta della dinastia Qing nel 1911 ha rappresentato l’inevitabile fallimento di un modello di organizzazione economica – quello, appunto, basato sullo sfruttamento sempre più intensivo di uno spazio limitato – che non poteva più soddisfare i bisogni di una popolazione grandemente cresciuta.

Questa era la Cina che il Partito Comunista ereditò: un paese in subbuglio, sovraffollato e basato su di un modello economico inadeguato e superato. Mao Zedong comprese che, per sopperire alle necessità della popolazione senza sacrificare l’unità politica del paese, sarebbe stato necessario un processo di industrializzazione su vasta scala. Il primo compito del Partito Comunista fu così quello di risolvere la situazione creatasi in un secolo di malgoverno, rivolte, guerre civili e eccessivo sfruttamento del terreno. Riportare l’ordine in un paese che nel 1949 si presentava completamente distrutto richiese diversi anni: su questo progetto si concentrarono gli sforzi del Partito Comunista durante il Primo Piano Quinquennale (1953-1957). Fu tuttavia con il Secondo Piano Quinquennale (1958-1961) che Mao e il Partito poterono incominciare a pensare ambiziosamente al futuro sviluppo industriale cinese.

Un compito non semplice, quello di industrializzare un’economia popolosa e così fortemente agricola come quella cinese (nel 1945 soltanto il 12,6% dei 541 milioni di abitanti viveva in città), e riuscire anche a farlo nei tempi prefissati da Mao significava affrontare molteplici difficoltà. Come riuscire a formare una popolazione urbana sufficientemente ampia e in grado di sostenere una solida base industriale nazionale, evitando però che queste città – a loro volta – crescessero troppo e troppo velocemente? Il Partito Comunista doveva riuscire a industrializzare la Cina, evitando però che le nuove città industriali soccombessero sotto il peso di un’incontrollata migrazione di forza lavoro dalle aree rurali estremamente povere e altamente popolate.

Nei primi anni ’50, durante la prima fase di ricostruzione nazionale, il Partito incoraggiò la migrazione verso le città, soprattutto verso le città dell’interno, che erano state sostanzialmente distrutte da decenni di guerre e ribellioni. Ma già alla fine degli anni ’50 fu chiaro che un’immigrazione incontrollata avrebbe finito col causare problemi sociali e finanziari, che il governo centrale, carente di risorse, non poteva risolvere. Al Partito serviva un sistema che non soltanto permettesse di tener traccia dei movimenti dei lavoratori, ma che li limitasse fornendo loro mezzi di sussistenza nei luoghi di nascita: il sistema dell’hukou, che limitava la possibilità del singolo di trasferirsi a lavorare anche soltanto nel villaggio confinante con quello in cui si era registrati come appartenenti a un gruppo familiare locale, fu pensato proprio a questo scopo. Grazie ai forti legami con le istituzioni tradizionali della famiglia e della mutua responsabilità fra parenti appartenenti allo stesso villaggio, il sistema dell’hukou – che Pechino seppe impiegare al meglio – fu adoperato dal Partito anche per sostenere la propria legittimazione interna.

Il sistema venne presentato come un modello orizzontale di organizzazione sociale basato sulla geografia e sulla famiglia, piuttosto che sulle classi. Le persone singole – lavoratori agricoli o urbani – erano ‘divise’ rigorosamente in hukou diversi, ma “uguali”. I lavoratori urbani non agricoli avevano diritto di accesso ai servizi sociali urbani perché, essendosi trasferiti in città, avevano perso le tradizionali reti di sostegno della famiglia e del villaggio. Ai lavoratori rurali i servizi sociali erano negati in quanto si presumeva che godessero del supporto famigliare. Come si può facilmente evincere, una simile differenziazione era tutt’altro che equa e portò inevitabilmente a una gerarchia verticale in cui i lavoratori urbani costituivano l’élite privilegiata rispetto ai lavoratori agricoli di classe inferiore. Nonostante ciò, data l’estrema povertà del paese, fino agli anni ’80 queste distinzioni vennero in qualche modo offuscate: per molti, nella Cina di Mao, tutti erano egualmente poveri.

Questa situazione mutò drammaticamente dopo il 1978. Con l’apertura economica e la crescita della produzione per l’esportazione, il rapporto tra luogo geografico e classe divenne più complesso. Fino al 1978 la base industriale cinese si trovava in città dell’interno come Wuhan, Chongqing, Shenyang e Xi’an, piuttosto che in città costiere come Shenzhen e Shanghai. Certo, divisioni tra città e campagna già esistevano ed a volte erano significative, ma gli sforzi di Mao di portare la produzione industriale al di fuori di regioni tradizionalmente benestanti ed economicamente autosufficienti − come il delta dello Yangtze e il Guandong – verso regioni interne che avevano bisogno di aiuti statali, facevano sì che la divisione urbano/rurale non coincidesse con la suddivisione regionale tradizionale.

Dopo il 1978, con una zona costiera prevalentemente urbana e sempre più ricca rispetto a un interno soprattutto rurale e sempre più arretrato, queste divisioni su base regionale riemersero e presero un forte connotato classista. Ciò fu anche dimostrato dal diffondersi di maltrattamenti e ostilità da parte dei residenti della costa nei confronti dei lavoratori poveri provenienti dalle province rurali di Sichuan, Henan e Shaanxi.

Il miracolo economico cinese del post-1978 non sarebbe stato possibile senza il sistema dell’hukou. Se i lavoratori avessero potuto spostarsi senza limitazioni territoriali, la Cina si sarebbe scontrata con gli stessi gravi problemi incontrati da altri paesi in via di sviluppo: grandi quantità di forza lavoro in eccesso si sarebbero riversate nelle città, creando difficoltà di natura fiscale e infrastrutturale che avrebbero portato alla formazione di quartieri poveri e degradati. Simili quartieri in città come Mumbai, Lagos o Rio de Janeiro sono infatti sintomatici dell’insuccesso di un’economia duale agricolo-industriale e rappresentano una pericolosa sfida allo sviluppo urbano. Con il sistema dell’ hukou Pechino è stata in grado di aggirare il problema mantenendo uno stretto controllo sulle migrazioni e garantendo contestualmente benefici e legalità per i migranti.

Negli ultimi cinque anni, l’attenzione del governo cinese − nel campo della macroeconomia e delle politiche di sviluppo − si è spostata sull’interno. Dopo oltre vent’anni di grandi investimenti nei trasporti e nelle infrastrutture urbane costiere, che dovevano sostenere l’industria manifatturiera per l’esportazione, Pechino si pone ora l’obiettivo di trasformare l’entroterra agricolo, densamente popolato, in una nuova base industriale che possa affiancare, se non addirittura rimpiazzare, quella costiera. La necessità di sviluppare l’entroterra coincide con un periodo di forte tensione e incertezze per Pechino. La Cina è alla fine di un ciclo di crescita economica che ha garantito stabilità sociale per più di venti anni. Quel ciclo ha funzionato secondo una particolare logica geopolitica, favorendo appunto lo sviluppo della costa a discapito dell’entroterra, ma ora – come è ben chiaro ai nuovi leader cinesi – si è prodotto uno sbilanciamento regionale che può mettere a rischio la tenuta del potere del Partito Comunista, se non adeguatamente affrontato.

Pechino sa che, per mantenere il controllo, sarà necessario creare un’economia nazionale genuinamente unificata, che comporterà la dislocazione di molti dei 600-700 milioni di agricoltori, nonché della maggior parte dei 250 milioni di lavoratori emigrati sulla costa, verso le città dell’interno. Perciò il sistema dell’hukou oggi è diventato uno degli ostacoli principali al raggiungimento di un’integrazione economica nazionale a lungo termine: è la struttura legale a sostegno di quello che, nei fatti, è un sistema di casta imposto dallo Stato, che ha aumentato le divisioni sociali ed economiche tra aree rurali ed urbane, tra entroterra e zone costiere, tra ricchi e poveri. Nonostante ciò una genuina riforma del sistema dell’hukou – intesa come ammorbidimento su vasta scala dei controlli sugli spostamenti o come abolizione delle classificazioni “rurale/urbano” e “locale/non locale” – non è prevedibile in un futuro immediato. Per urbanizzare l’entroterra è ipotizzabile che Pechino scelga invece di adoperare il sistema dell’hukou come fecero i leader del Partito Comunista negli anni ’50: per favorire attivamente gli spostamenti dei lavoratori verso le città dell’entroterra. Pechino potrà presentarla come “la riforma dell’hukou”, ma di fatto si tratterà di una manipolazione del sistema dell’hukou.

Urbanizzare l’entroterra pone più di un problema. Pechino dovrà trasformare le nuove realtà urbane di secondo o terz’ordine per renderle appetibili tanto quanto le città costiere, sia per i lavoratori attualmente impiegati nelle città della costa, sia per i titolari di hukou agricolo che vivono nelle province interne. Questo non sarà facile, perché dopo vent’anni di migrazioni dall’interno verso la costa i migranti hanno instaurato forti legami regionali e fitte reti di comunicazione fra le aree interne e quelle costiere. Molte fabbriche, se non addirittura molte città, sono abitate da persone provenienti da un’unica città o provincia dell’entroterra. Per incanalare nuovamente le migrazioni verso l’interno è necessario creare incentivi più forti dei legami che nel tempo si sono creati nel nuovo insediamento. Pechino farà fatica anche a spostare in città possessori di hukou agricolo. Un effetto degli investimenti statali per sviluppare l’interno del Paese è stato l’aumento vertiginoso del valore della terra nelle città e nei suburbi dell’interno. Con l’aumento del valore dei terreni, i possessori di hukou agricolo sono sempre più restii a cedere i loro terreni ai governi locali in cambio di un hukou in città provinciali di secondo o terz’ordine con scuole, ospedali e servizi mediocri. In passato i governi comunali − con il favore del governo provinciale o centrale – urbanizzavano spesso a forza le popolazioni rurali con il pretesto dell’esproprio per interesse pubblico, e ottenevano la terra in cambio di un appartamento urbano di scarso valore e di servizi sociali irrisori. Questa pratica oggi provoca grandi proteste, perciò varie autorità provinciali hanno proposto misure per salvaguardare i diritti dei possessori di hukou agricolo.

Se il governo centrale vorrà urbanizzare l’entroterra senza creare instabilità e proteste dovrà lavorare con i governi locali per stabilire incentivi forti che incoraggino l’emigrazione verso le realtà urbane dell’interno. Ciò significa migliorare l’accesso allo studio, rendere più efficace la sanità, moltiplicare le possibilità di lavoro e apportare migliorie alle strutture urbane. Molte città stanno già cercando di fare tutto ciò, ma si tratta di interventi costosi e, a parte la vendita dei terreni, le entrate comunali provengono soltanto dallo Stato. Forse il principale ostacolo all’urbanizzazione è la mancanza di un piano per finanziare a livello locale i servizi sociali che dovrebbero attrarre i nuovi lavoratori urbani. Servirebbe un differente rapporto finanziario tra i governi locali e quello centrale: ma si tratta di un processo che potrebbe ridurre fortemente l’influenza del governo centrale sulle regioni, perciò irto di pericoli politici. Il Partito Comunista ha costruito un sistema politico-economico estremamente complesso, in cui ogni elemento sembra essere egualmente fondante e strettamente legato a tutti gli altri.

I cicli storici di ascesa, espansione, declino e crollo delle dinastie cinesi attraverso i secoli suggeriscono che lo schema possa ripetersi e che il crollo del sistema ci sarà, se il Paese non riuscirà a ridurre quegli squilibri tra zone costiere ed entroterra, tra città e campagna, che hanno sempre portato al disfacimento del potere centrale. 

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