L’ISIS
e i sunniti iracheni

30/06/2014

Nonostante tutte le notizie che circolano in questi giorni sull’avanzata dell’ISIS in Iraq, non si capisce come un manipolo di jihadisti qaedisti composto da poche migliaia di uomini sia riuscito a mettere in fuga un esercito di centinaia di migliaia di soldati iracheni addestrati e armati dagli Stati Uniti negli scorsi anni.

La causa va ricercata proprio nei nuovi equilibri iracheni all’indomani della fine del regime di Saddam Hussein, in particolare dopo le elezioni del 2010. Dopo un lungo negoziato, su pressione degli USA venne confermato alla guida del paese il premier sciita Nouri al-Maliki, nonostante la lista laica al-Iraqyia, guidata dall’ex premier – anch’egli sciita – Iyad Allawi, avesse vinto le elezioni, soprattutto grazie ai voti delle regioni sunnite (vedi mappa di testata).

Negli ultimi anni il livello di insoddisfazione fra le tribù sunnite per le politiche di al Maliki è andato crescendo.  Molti capi tribali che avevano contribuito alla pacificazione del paese a fianco degli Stati Uniti nel periodo del surge del 2007 – i cosiddetti Sunni Awakening Councils – hanno preso posizione contro il governo al-Maliki, specialmente dopo che il governo ha esplicitamente deciso di non integrare le milizie sunnite nell’esercito nazionale nel 2013. I capi tribù da un paio d’anni a questa parte organizzano sit-in e manifestazioni nelle principali province sunnite irachene contro il regime di al-Maliki, chiedendo maggiore rappresentanza e un nuovo accordo per la spartizione equa del potere fra Sunniti e Sciiti.

Al-Maliki ha spesso utilizzato il pugno di ferro contro le manifestazioni accusando i manifestanti di essere “pericolosi terroristi di al Qaeda”, e procedendo ad arresti e fucilazioni sommarie.  La polarizzazione in Siria fra le milizie sunnite che combattono contro Assad e i gruppi sciiti armati e finanziati dagli Iraniani ha contagiato l’Iraq e aumentato la tensione settaria, ma alla radice della crisi irachena vi è un fattore politico: l’esclusione intenzionale di una parte della popolazione – i Sunniti, appunto – dalla gestione del potere.

Il leader della principale tribù sunnita Ali Hathem al-Suleiman – in passato attivo all’interno dei Sunni Awakening Councils – ha apertamente dichiarato guerra al premier Nouri al-Maliki, considerato un agente dell’espansionismo iraniano (sciita) nella regione. In una recente intervista ha dichiarato che “i terroristi dell’ISIS rappresentano solo una minoranza” pari al 7-10% dei Sunniti insorti, e che il loro ruolo nella rivolta è stato esaltato eccessivamente dai social network.

Al-Suleiman descrive una situazione di rivolta delle tribù sunnite contro il governo di Baghdad, che non terminerà fino all’ottenimento di una costituzione federale che tenga conto della presenza sciita, sunnita e curda, e di un nuovo accordo intergovernativo per la spartizione del potere e delle risorse. Al-Suleiman ha aggiunto che non esiste nessuna alleanza fra le tribù e l’ISIS, e che ci sarà inevitabilmente un regolamento di conti con l’ISIS appena al-Maliki se ne sarà andato - anche se le tribù potrebbero avere qualche sorpresa, e non riuscire a liberarsi facilmente dell’ISIS.

In quest’ottica, l’aiuto degli USA all’esercito di al-Maliki e ai Pasdaran iraniani schierati a difesa del governo di Baghdad sembra un pericoloso errore. Questa decisione permetterà all’Iran, additato spesso come nemico giurato dell’Occidente e principale sponsor del terrorismo internazionale, di vincere la partita su tutti i tavoli. Potendo contare sull’impazienza degli USA, desiderosi di risolvere il problema iracheno quanto prima, gli ayatollah continueranno a sostenere al-Maliki, e cercheranno allo stesso tempo di strappare un accordo vantaggioso sul nucleare e l’allentamento delle sanzioni. Inoltre potranno consolidare una volta per tutte la propria presa sul governo di Baghdad, assurgendo a ruolo di potenza egemone regionale.

Davide Meinero

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