La solitudine del tiranno
di Robert Kaplan per Stratfor

02/07/2014

Nei primi anni ’90 un diplomatico di alto rango di un paese dell’Est Europa fu convocato al palazzo del dittatore siriano Hafez al Assad. Gli venne detto di presentarsi da solo. Non conosceva il motivo della convocazione. Venne accompagnato di fronte al dittatore: nella stanza non c’erano altri funzionari, né traduttori. Il diplomatico e al Assad comunicarono in francese.

In quindici minuti non si erano detti quasi nulla e il diplomatico si fece sempre più perplesso. Perché era stato convocato? A un certo punto al Assad disse con noncuranza: “Come è potuto accadere che un uomo come Nicolae Ceausescu − che controllava i servizi segreti, l’esercito, tutti i giornali e i canali televisivi e l’intero apparato politico − sia stato deposto e giustiziato? Come è potuto succedere?”. Il diplomatico notò quanto il governante siriano fosse emozionato. Questo era il motivo per cui era stato convocato! Il rovesciamento del dittatore della Romania a Natale del 1989 aveva spaventato al Assad più di quanto avrebbe potuto spaventarlo qualsiasi evento in Medio Oriente. Se poteva essere rovesciato un dittatore che esercitava il potere secondo il modello stalinista, nessun tiranno poteva considerarsi al sicuro sul proprio trono! In quel momento il diplomatico comprese in tutta la sua intensità l’assoluta solitudine del potere assoluto.

Chi ha incarichi di grande importanza in qualche governo democratico e deve prendere decisioni in base alle quali sarà giudicato per il resto della sua vita avverte questo senso di solitudine, ma in modo molto meno drammatico. Come un ex Segretario di Stato disse una volta, le decisioni fatidiche si prendono in stanze vuote, perché nessun altro vuole assumersene la responsabilità. Ma immaginiamo un tiranno, senza mezzi di informazione di cui preoccuparsi o che lo limitino, e senza nessuno che osi dargli consigli sinceri e men che meno contraddirlo: il senso di solitudine è infinito. Una volta un arabista del Dipartimento di Stato, parlando degli Assad, disse: “Sono sottoposti a livelli di stress che nessun politico di Washington sarebbe in grado di sostenere”.

Il tiranno è costantemente circondato e seguito da assistenti e consiglieri, ma dal punto di vista emotivo è del tutto isolato. Il tiranno non è diventato tale perché stupido; al contrario, è arrivato al potere grazie al suo istinto e alle sua capacità di manipolazione. Ed essendo manipolatore e acuto, sa di avere attorno solo potenziali nemici e sa che l’opinione pubblica ha più importanza per lui che per qualsiasi leader democratico. Se sbaglia nell’interpretare gli umori dell’opinione pubblica non perde un’elezione, ma la testa, letteralmente. L’incolumità fisica sua e della sua famiglia dipende sempre dalla corretta valutazione degli umori popolari.

Il tiranno sa di dover accontentare il popolo. Ma se il popolo non può essere soddisfatto, allora deve avere paura anche solo di lamentarsi della sua infelicità. Non esistono alternative, solo l’una o l’altra situazione. Quindi il despota guarda all’andamento dell’economia in modo diverso rispetto a un leader democratico. Un uomo d’affari texano raccontò una storia riguardo un colloquio con il dittatore iracheno Saddam Hussein. L’uomo era in affari con l’Iraq negli anni ’80 e durante una sua visita a Baghdad venne portato al cospetto di Saddam. Anche in questo caso, i due parlarono poco finché Saddam non disse che prevedeva per gli anni immediatamente successivi una grande crescita dell’economia irachena. L’uomo, senza riflettere, disse: “Non secondo i dati di cui sono a conoscenza io, Signor Presidente”. Subito Saddam si agitò e domandò: “Davvero, quali dati ha lei?”. Allora il texano notò che l’uomo che era accanto a lui, uno dei più importanti consiglieri economici di Saddam, cominciò a sudare e vide rappresentato il dilemma del tiranno, in tutta la sua crudeltà: più la tirannia è assoluta e potente, meno è probabile che qualcuno dica al tiranno la verità. La capacità del despota di terrorizzare gli altri fa sì che egli si trovi spesso a prendere decisioni senza avere le conoscenze necessarie.

Il fatto di non essere mai contraddetto porta a prendere abbagli. Saddam non pensava che nel 2003 gli Stati Uniti avrebbero davvero invaso l’Iraq e, qualsiasi fossero le opinioni della ristretta cerchia di consiglieri, nessuno avrebbe mai sfidato il capo al punto da rivelare un simile timore. La morte di Saddam e dei suoi due figli fu la conseguenza di questa situazione.

Hafez al Assad non aveva alcun motivo di preoccuparsi: il destino di Ceausescu era differente dal suo. Ceausescu aveva certo mostrato una spietata astuzia nell’arrivare al potere, ma poi aveva gradualmente ceduto grandi responsabilità alla sua vanitosa e poco intelligente moglie, Elena, le cui decisioni a fine anni ’80 portarono all’esecuzione della coppia. Assad invece morì in pace nel suo letto, essendo ancora al potere – sommo obiettivo di ogni tiranno. Assad raggiunse l’obbiettivo ponendosi dei limiti. Il suo regime fu molto meno brutale di quello di Saddam. In Siria le persone potevano parlare francamente, purché non lo facessero in pubblico; in Iraq invece le persone avevano paura a parlare anche all’interno delle loro case. Assad commise atrocità solo in momenti cruciali, quando era “utile”: durante la guerra civile in Libano e per far fronte alla crescente minaccia sunnita. Assad inveì sempre contro Israele, ma dopo il 1974 mantenne la tregua. Saddam, al contrario, fece uccidere centinaia di migliaia di Iracheni e fece una guerra con l’Iran che causò la morte di un milione di persone. Non molto tempo dopo invase il Kuwait. Si dice che Assad dicesse di Saddam: “È come un fumatore incallito. Non ha ancora finito una guerra che già ne comincia un’altra”.

Forse suo figlio, Bashar al Assad, morirà altrettanto beatamente nel suo letto a Damasco, ancora al potere, ora che ha migliorato la propria posizione politica e militare nella guerra civile siriana. Suo padre ne sarebbe fiero. Bashar ha certamente causato la morte di molte più persone rispetto al padre, ma quali alternative aveva, dal suo punto di vista, dovendo fronteggiare una rivolta popolare così diffusa, nell’epoca delle tecnologie della comunicazione? Avrebbe dovuto negoziare la propria destituzione, che l’avrebbe condotto dritto di fronte a un plotone d’esecuzione o a un processo all’Aja? Negoziare il proprio destino è una possibilità da considerare per un occidentale, ma la mente di un tiranno funziona in modo diverso.

L’ex leader libico Mohammad Gheddafi, con tutte le sue manie e i suoi eccessi, ha avuto una fine simile a quella di Ceausescu. Ora c’è un nuovo uomo forte in Egitto, il presidente Adbel Fattah al Sisi. Anche se formalmente è stato eletto, sa di aver compromesso la sua democraticità quando ha acconsentito all’uccisione per le strade di centinaia di sostenitori dei Fratelli Musulmani. Se dovesse essere rovesciato, la prigione sarebbe per lui il luogo più sicuro. Dopo gli avvenimenti del 2011-2014, sa che gli Egiziani sono coscienti di avere il potere di destituire chi sta al governo. Migliorare le condizioni economiche di vita della classe media sarà indispensabile per la sopravvivenza fisica dello stesso al Sisi. Infine, c’è il leader iracheno sciita, il Primo Ministro Nouri al Maliki, che durante i suoi otto anni di governo è diventato sempre più dispotico e ora si trova a fronteggiare la ribellione degli estremisti sunniti…

Non c’è davvero da invidiare un tiranno. La sua è una vita davvero infelice.

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