l'Europa che verrà

03/02/2015

In sintesi, l’opinione di George Friedman, autore di ‘Flashpoints: the Emerging Crisis in Europe’.

La crisi finanziaria del 2008, iniziata negli Stati Uniti, ha fatto scoppiare la successiva crisi del debito sovrano in Europa: alcuni paesi europei si ritrovarono nella condizione di non poter più rimborsare i titoli di stato in scadenza e di conseguenza anche il sistema bancario, che aveva fatto incetta di questi titoli, era a rischio fallimento. Occorreva intervenire in qualche modo, ma non fu facile trovare un accordo, perché c’erano due visioni opposte degli eventi.

1)     Secondo la versione tedesca, accettata dai più in Europa, la crisi del debito è frutto delle politiche sociali irresponsabili dei paesi indebitati, come la Grecia. Pensioni anticipate per i dipendenti pubblici, sussidi di disoccupazione eccessivi, corruzione e sprechi hanno causato l’esplosione del debito pubblico. In base a questa versione, i politici greci continuavano a comprarsi i voti dilapidando le risorse dello stato in progetti insostenibili. chiudendo un occhio sull’evasione fiscale, e umiliavano così l'iniziativa imprenditoriale e l'etica del lavoro.

2)     La versione opposta, che oggi sta acquisendo credibilità, è che la crisi sia frutto dell'irresponsabilità della Germania. L’export tedesco costituisce circa il 50% del prodotto interno lordo: i consumatori tedeschi non possono consumare l'enorme produzione industriale. In pratica il paese ha un’economia basata sulle esportazioni e considera l'Unione Europea – con la sua zona di libero scambio, l'euro e le regole di Bruxelles – come un mezzo per mantenere queste esportazioni. Secondo questa visione i prestiti concessi dai Tedeschi alle banche greche dopo il 2009 servivano ad alimentare la domanda di beni tedeschi. La Germania condanna i debitori insolventi, ma non vuole affrontare il problema dell’insostenibilità del suo export.

Se accettiamo la prima versione, dobbiamo costringere la Grecia a rimettersi in carreggiata attraverso le misure di austerità. Se invece accettiamo la versione greca, per porre fine alla crisi la Germania dovrebbe arginare il proprio appetito e cambiare le regole per limitare le esportazioni in quei paesi dell’eurozona che non hanno un’industria capace di tener testa a quella tedesca.

Finora ha prevalso la versione tedesca. Ma l’impatto dell’austerità in Grecia è stato molto grave. In Grecia, così come in altri paesi europei, molti professionisti – ad esempio nel settore sanitario – lavorano per lo stato. Per questo i tagli hanno avuto un impatto enorme sulla classe media, oltre che sulle classi più povere. La disoccupazione in Grecia è salita al 25%, superando il record degli USA durante la Grande Depressione. Situazioni analoghe, anche se meno gravi, si sono verificate in Spagna e in Portogallo, nella Francia del Sud e in Italia. L'Europa mediterranea aveva aderito all'Unione Europea con la speranza di un innalzamento degli standard di vita, ma ora questa speranza è delusa.

A prescindere dalla versione dei fatti che vogliamo accettare, una cosa è certa: la Grecia è stata costretta ad accettare un piano di risanamento che la sua economia non poteva sostenere, che l'ha gettata in una depressione dalla quale non è più uscita. Ma la Grecia non è un caso isolato in Europa. Nell'Unione Europea erano in molti a credere che, accettando le regole europee, col tempo i Paesi i crisi si sarebbero rimessi in sesto. I partiti di massa hanno sostenuto l'Europa e le sue politiche, e hanno continuato a essere votati. Ma ora c’è un cambiamento. Lo si percepisce dalla decisione della BCE di allentare l'austerity aumentando la liquidità (QE). Il rischio è che sia troppo tardi: iniettare liquidità può funzionare in caso di recessione, ma vaste aree dell'Europa meridionale sono ormai in depressione, le infrastrutture che dovrebbero utilizzare la liquidità sono a pezzi, dunque l'impatto del provvedimento sulla disoccupazione sarà limitato. Ci vorrà una generazione per riprendersi dalla depressione. La BCE non ha neppure incluso la Grecia nel programma di QE perché non vuole sobbarcarsi il rischio di nuovi prestiti, dato che il paese è troppo indebitato.

In ogni paese europeo sono sorti movimenti che si oppongono alle politiche dell'UE: molti sono schierati a destra, e oltre ad opporsi alle politiche economiche rivendicano il controllo dei confini per limitare l'immigrazione. Ma anche la sinistra ha gruppi – come Podemos in Spagna e ovviamente Syriza in Grecia – che condividono più o meno le idee della destra, ad eccezione delle questioni razziali. Questi movimenti minacciano i partiti tradizionali, ormai percepiti dalle classi medio-basse come complici della Germania nell’imporre le politiche di austerità. La Grecia è stata il primo paese a sperimentare il default, l’adozione delle politiche di austerità, il peso delle riforme, ed è ora il primo a chiedere esplicitamente di porvi fine. Ma potrebbe non rimanere un caso isolato.

Syriza cerca ora di rinegoziare la restituzione dei prestiti ai creditori europei, ed è probabile che ci riesca.

La Germania non ha un interesse particolare a mantenere la Grecia nell’Euro, ma teme i movimenti che vorrebbero limitare il libero scambio in Europa. Il tentativo di alcuni movimenti di destra di limitare la libera circolazione dei lavoratori e degli immigrati rappresenta già un pericolo. La Germania, così dipendente dalle esportazioni, non può permettersi chiusure di mercato. Oggi la preoccupazione di fondo non è se qualche paese uscirà dall’euro, ma se uscirà dalla zona di libero scambio. Durante il periodo di prosperità l'apertura dei confini era sembrata una ottima cosa, ma la paura del terrorismo islamico e la paura della competizione con gli immigrati per i pochi posti di lavoro mettono a rischio la libera circolazione delle persone. Se le nazioni erigono barriere per limitare l'afflusso di persone, potrebbero fare altrettanto con le merci, sempre al fine di proteggere industrie e posti di lavoro. Sul lungo periodo il protezionismo danneggia l'economia, lo sappiamo tutti, ma in Europa molti cittadini oggi non ragionano sul lungo periodo, soprattutto se hanno perso lo status di professionisti e non sanno più come dar da mangiare ai figli.

Per la Germania il fallimento dell'euro significherebbe la perdita di uno strumento per gestire il commercio dentro e fuori dall'eurozona: il trionfo del protezionismo in Europa sarebbe una vera e propria calamità; riducendo le esportazioni, l'economia tedesca vacillerebbe. La questione dell'austerità è ormai alle spalle. La BCE vi ha posto fine con la decisione di Quantitive Easing. Il nocciolo del problema è ora il libero scambio. La vittoria di Syriza ha scosso il sistema politico europeo, anche se gli europeisti tentano di considerarlo un caso isolato.

Una zona di libero scambio in cui il paese di maggior influenza non è un grande importatore non può funzionare. La Germania, la quarta economia del mondo, invece di essere il motore della crescita d’Europa con le sue importazioni, esporta metà del suo prodotto interno lordo. Non è una situazione sostenibile a lungo.

Attualmente sono tre le questioni sul tappeto:

1)     il desiderio di alcuni gruppi politici di controllare i confini – in teoria per arginare il terrorismo islamico ma in verità per limitare i movimenti della manodopera, musulmani inclusi;

2)     l’aumento dell’autonomia degli stati nazionali nella gestione della crisi, per via della forma in cui è stato studiato il QE. Infatti saranno le banche centrali dei singoli stati a condurre l’operazione, acquistando il debito del proprio stato.

3)     Il progressivo sfaldamento della base politica tradizionale dei partiti europeisti.

L'interrogativo non è tanto se l’Europa potrà mantenere la sua attuale forma, ma quanto cambierà. E soprattutto se l’Europa, incapace di mantenere l’unità, vedrà la rinascita del nazionalismo, con tutte le sue conseguenze.

 

 

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