L’opinione di Sisci su presente e futuro dell’Europa

19/10/2016

Francesco Sisci, che da molti anni vive in Cina, scrive su Asia Times (Europe must unite in the face of a rising China, 5 ottobre 2016) che l’Europa si sta spaccando sulla questione dei profughi e ogni paese costruisce muri alla frontiera, ma dovrebbe invece costruire un esercito comune, che sarebbe molto più utile per prevenire e reprimere possibili insurrezioni o attentati terroristici, o combattere i terroristi nei paesi da cui il terrorismo dilaga all’estero. 

Inoltre è chiaro, dice Sisci, che la frantumazione d’Europa sarebbe un enorme successo politico per la Russia, che da dieci anni è alla ricerca di riscossa e di vendetta contro l’Occidente dopo l’umiliazione del collasso dell’Unione Sovietica. Senza contare che l’Europa dovrà vedersela anche con la Cina, la cui potenza è appena all’inizio di una grande espansione, oltre che con l’India e l’Indonesia e l’Asia Centrale. La nuova Via della Seta (o One Belt, One Road) che la Cina sta promuovendo e costruendo cambierà in modo importante i flussi del commercio in tutta l’Asia e in Europa. I commerci via terra potrebbero tornare a essere i più importanti al mondo, come nel Medio Evo, superando per importanza i commerci via mare (si vedano nella mappa i sei corridoi economici progettati e parzialmente realizzati). Ma la maggior parte degli stati europei non sapranno trarre profitto dalla nuova situazione se procederanno individualmente anziché come entità progettuale unica. Ovviamente i paesi periferici, quelli mediterranei, saranno in una posizione svantaggiata rispetto ai paesi che si trovano geograficamente nel cuore del Continente.

Occorre che gli Europei cessino di guardare all’immediato, sia in termini territoriali che in termini temporali, e che pensino e progettino a vent’anni di distanza: vent’anni è l’orizzonte minimo per prendere decisioni ragionevoli, che non siano soltanto reazioni di pancia. Guardando al mondo in un’ottica temporale di vent’anni, gli USA stanno progredendo tecnologicamente e hanno giustamente accentrato l’attenzione politica ed economica sull’Asia, non più sull’Europa.

Invece in Europa le persone cercano di ancorarsi alle tradizioni del passato e difendono i benefici del passato: gli alti salari, il welfare, l’omogeneità culturale. A temere i cambiamenti sono le generazioni anziane e gli stati sociali medio-bassi, che hanno difficoltà a cambiare visuale, ad acquisire nuove competenze e nuove conoscenze. Conducono un gioco in difesa che non li porterà alla vittoria. Per costoro la necessità di cambiamento è legata all’idea di Europa e pensano che se rimarranno legati al concetto di Italia o Inghilterra, o persino di Sussex o Guascogna o Lombardia, rimarranno in terreno sicuro, allontaneranno la necessità di cambiare e manterranno i loro posti di lavoro, il loro welfare, la loro tranquillità. Queste legittime e comprensibilissime paure sono usate dai populisti per conquistare il potere. Non saranno le burocrazie a saper controbattere e a far cambiare gli Europei, né a far loro percepire con ottimismo e lungimiranza le inevitabili nuove sfide: occorre coinvolgere la cultura e la scuola.

Occorre che gli Europei cessino di guardare all’immediato, sia in termini territoriali che in termini temporali, e che pensino e progettino a vent’anni di distanza.

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