Barbari e civilizzati

28/08/2017

È il titolo di un bel saggio di Pascal Bruckner per il City Journal (https://www.city-journal.org/html/barbarians-and-civilized-14957.html), che riassumiamo in italiano. 

È ormai un luogo comune, propagato dai pensatori e dai media occidentali, che l’Europa e la cultura europea siano responsabili di una moltitudine di mali. Molti Europei sono giunti a detestare sé stessi, certi di aver inflitto al mondo mali che devono essere costantemente espiati. I mali sono il colonialismo e l’imperialismo, entrambi ricondotti al capitalismo. Oggi non c’è nulla di più tipicamente europeo di questo odio di sé. Eppure, scagliando i loro anatemi, i sacerdoti dell’auto-diffamazione manifestano la loro appartenenza all’universo che rifiutano. L’auto-denigrazione è chiaramente una forma di indiretta di auto-glorificazione. Il male viene solo da noi; gli altri sono sempre paternalisticamente giustificati da buona volontà e candore. Vedere noi stessi come i re dell’infamia è un modo per porci ancora all’apice della storia. La barbarie è diventata l’orgoglio dell’Europeo odierno, messianico in tono minore, quando nega che i barbari siano altri, o che abbiano qualche responsabilità del proprio destino.

L’Europa ha commesso le peggiori atrocità. Ma il genio peculiare dell’Europa è rendersi conto delle sue aree oscure. L’Europa sa come sono fragili le barriere che la separano dalla degradazione e non è più disposta a condurre crociate per il Bene contro il Male, conducendo piuttosto campagne per il preferibile, come diceva Raymond Aron. L’Europa è il pensiero critico in azione: a partire dal Rinascimento, si è costituita all’interno di un dubbio pervasivo e guarda e se stessa con lo sguardo di un giudice intransigente. La storia occidentale è un’avventura unica nell’auto-riflessione che abbatte gli idoli e martella le tradizioni e l’autorità.

Lo spirito europeo differisce profondamente da quello delle altre culture che non hanno abbracciato questa sfida sistematica alle proprie convinzioni. Accogliere l’Occidente europeo equivale ad aprire la porta dietro la quale si nascondono audacia, caos e sfide agli abusi travestiti da tradizioni e alle disuguaglianze basate sulla legge di natura. Questo impone alle società il pesante compito di liberarsi dal passato e di emergere dal bozzolo rassicurante delle consuetudini − e ciò può provocare una forte opposizione e perfino odio. L’Europa è detestata non tanto per i suoi difetti effettivi quanto per i suoi sforzi per correggerli e per l’invito al resto del mondo a seguire il suo esempio, anche a costo di far vacillare la propria sovranità.

L’uomo civilizzato deve costantemente guardare la barbarie in faccia, per ricordare da dove viene e ciò che potrebbe diventare di nuovo

È il paradosso delle società aperte sembrare disordinate, ingiuste e minacciate dalla criminalità, dalla solitudine e dalle droghe, ma questa percezione è dovuta in parte dal loro mostrarsi senza veli davanti al mondo. Altre società più oppressive possono sembrare armoniose perché soffocano le discussioni e la politica oppositiva. “Dove non ci sono conflitti visibili, non c'è libertà” osservò Montesquieu. Le democrazie sono naturalmente a disagio, non realizzando mai i loro ideali; creano incessantemente un divario tra le speranze che suscitano e le modeste realtà che costruiscono.

Il sistema coloniale non poteva non degenerare in una segregazione di fatto e nell’apologia della razza bianca, svalutando infine sia il nativo sia il colono. L’esportazione della violenza in terre lontane, dove poteva essere praticata senza testimoni, ha permesso ai conquistatori di abbandonare leggi e regole, ma anche di far ripartire la ruota dello sviluppo. La violenza venne adornata con le forme e gli alibi della cultura, dandole l’impunità in nome di una vocazione superiore.

Oggi essere civilizzati significa sapere che siamo potenzialmente barbari. Guai ai bruti che pensano di essere civilizzati e si chiudono nel laccio infernale delle loro certezze. Sarebbe bello iniettare in altri il veleno che da lungo tempo ci rode: la vergogna. Un po’ di senso di colpa non potrebbe far che bene al governo e al popolo a Teheran, Riyadh, Karachi, Mosca, Pechino, l’Avana, Caracas, Algeri, Harare o Islamabad.

Il nostro concetto di barbarie e civiltà si riflette nel modo in cui consideriamo l’infanzia. Ritenuto nel Medioevo una cosina fragile, senza cuore né volto, res nullius, il bambino venne visto come pienamente umano soltanto in tempi recenti. Soltanto nel XVII secolo, e soltanto per le classi benestanti, gli ordini religiosi inaugurarono progetti di educazione scolastica e i bambini cominciarono a essere considerati parte di una famiglia basata sull’intimità e sull’affetto privato. Considerato innocente, non più come un piccolo adulto, il bambino – così come il selvaggio − prese a esser protetto da ogni possibile influenza nociva. Per la prima volta nella storia si svilupparono progetti pedagogici che accompagnavano il bambino fino all’età adulta.

Un’altra tradizione, ereditata da Rousseau e Freud, rimodellò la nostra visione dell’infanzia. L’infanzia fu vista come un tesoro dilapidato che doveva essere recuperato. Il bambino e il selvaggio erano sempre figure affini, però viste come fonti di saggezza perché capaci di vivere in comunione immediata con le cose. In Freud l’accento è posto sui primi anni di vita come fondamento di ciò che saremo per l’intera esistenza. Rousseau, invece, conduce la danza con l’elegia dello stato di natura. Dopo Rousseau anche il pazzo, l’artista, il criminale e il ribelle sarebbero stati collocati sullo stesso piano del fanciullo e del buon selvaggio. “Io sono due cose che non possono essere ridicolizzate, un selvaggio e un bambino”, disse Gauguin durante il suo esilio volontario nelle isole dell’Oceania. Paul Claudel, poeta e drammaturgo, celebrò Rimbaud come un “mistico allo stato selvaggio” che, in virtù della sua giovinezza, catturava nei suoi versi un cenno del divino. Nella reazione romantica all’Illuminismo il bambino diventa simile a un membro coloniale della famiglia, proprio come il nativo è improvvisamente visto come figlio dell’umanità, il pazzo come paria della ragione, il poeta come il selvaggio della società sviluppata. Poiché l’età è una discesa nelle menzogne ??delle mere apparenze e il mondo industriale è il distruttore dell’equilibrio naturale, se vogliamo scoprire o riscoprire la verità dobbiamo contare su questi personaggi ingenui o ardenti, dobbiamo bere da queste fonti fresche. 

Il colonialismo, basato sulla metafora del maestro e dell’allievo, fu l’ultimo prodotto dell’ottimismo pedagogico. Gli Europei si diedero la missione di guidare verso l’Illuminismo il nativo indolente, crudele e spontaneo, sopraffatto dalle emozioni e immerso nell’ignoranza. L’anticolonialismo e il terzomondismo degli anni ’60 e ’70 mantennero la metafora invertendone i ruoli: le giovani nazioni dell’emisfero meridionale sarebbero incaricate di salvare le potenze settentrionali post-imperiali. Ottenendo la propria indipendenza, le nazioni colonizzate offrirebbero ai loro ex governanti la possibilità di redimersi. L’Occidente materialista potrebbe rigenerarsi sottomettendosi ai ‘barbari’.

Per gli attivisti terzomondisti gli Africani, gli Indiani e i Cinesi erano migliori di noi proprio perché “sottosviluppati”. L' “arretratezza” di tali società le manteneva in contatto con qualchecosa di vitale, che noi avevamo abbandonato. Parallelamente vedevamo il bambino come il nostro “buon selvaggio in residenza”, nella formulazione di Peter Sloterdijk. Il bambino conosceva molte cose meglio di noi. Aveva quasi diritto di diventare genitore del genitore, o insegnante dell’insegnante, come sostenuto in alcune teorie pedagogiche moderne che hanno promosso l’espressione libera dei bambini, il loro “genio” a scapito dell’alfabetizzazione.

L’odio per il ‘borghese’ ha alimentato la nuova visione del barbaro. Per due secoli il ‘borghese’ è stato prototipo astratto di ignominia. Rifiutato violentemente dalla nobiltà per la sua volgarità, dalla classe operaia per la sua cupidigia, dall’artista per la sua propensione al calcolo e all’utilitarismo, l’immagine del ‘borghese’ è stata caratterizzata da una bassezza ontologica. L’unica colpa assente dal suo catalogo di tratti negativi era la criminalità, finché Hannah Arendt non provvide ad accusare i gestori della macchina omicida nazista di burocratica banalità borghese.

“Un uomo non può essere che monaco o soldato”, esclamò Joseph de Maistre, riassumendo la grandezza di un vecchio regime guidato da poche passioni fondamentali. Quando il guerriero e il santo si indebolirono sorse il borghese votato ai raffinati commerci che, nell’intendimento dell'Illuminismo, avrebbero esorcizzato la violenza. Prima ancora che i marxisti e i socialisti accusassero il borghese di sfruttamento vergognoso del proletariato, i romantici videro nel processo di pacificazione operato dai commerci borghesi una terribile limitazione dell’umanità. La morale borghese, dicevano, avrebbe ridotto il desiderio alle mere dimensioni dell’arricchimento materiale. La vita calma pareva misera a coloro che avevano sperimentato gli splendori della monarchia e gli uragani dell’avventura napoleonica. Il paradiso terrestre che l’Illuminismo aveva promesso era diventato una realtà piatta e banale. La nuova classe di imprenditori e commercianti prometteva una sorta di ottusa felicità. Persino le sue tragedie avevano odore di stufato casalingo.

Il crimine di questa nuova classe? Per molti era l’aver ricreato il destino − dopo che la Rivoluzione francese aveva promesso libertà, uguaglianza e mobilità per tutti − ripristinando, attraverso le disuguaglianze sociali, una società di ordini e regole. “Piuttosto la barbarie che la noia”, proclamò il romantico francese Théophile Gautier nel 1850. Poiché la vita sotto i monotoni cieli dell’ordine borghese è letargica, è preferibile la morale predatoria dell’aristocratico o la libertà del selvaggio. Perciò la guerra del 1914 assunse per molti l’attrazione del nuovo e del sensazionale. Stanchi della noia della loro vita, gli Europei abbracciarono l’idea di un’apocalisse emozionante − e realizzarono orribili realtà. Adolf Hitler si mise in ginocchio nel 1914 e ringraziò Dio che la guerra fosse scoppiata. La vedeva come patria naturale dell’uomo, un test supremo che avrebbe reso le trincee un “monastero con pareti di fuoco”.

Tutto il XX secolo − da Nietzsche a T.E. Lawrence alle Brigate Rosse, attraverso i Futuristi e i Freikorps − contrappose all’idea di ‘borghese’ un romanticismo di spiriti vulcanici, impazienti di perdersi in “tempeste di acciaio”. Tanti intellettuali moderni furono affascinati dalla violenza. “Voglio vivere solo in situazioni estreme. Tutto ciò che è mediocre mi esaspera così tanto che potrei urlare”, esclamava il collaborazionista francese Drieu la Rochelle nel 1935, mentre si recava a Mosca dopo aver visitato Norimberga e Dachau. Nove anni più tardi, nel 1944, annotava nella sua rivista, prima di commettere suicidio, quanto ammirasse Stalin, il nuovo maestro del mondo, dimostratosi più forte di Hitler. Meglio essere terrorista o criminale che un piccolo burocrate o un insignificante risparmiatore.

Accade anche che il borghese possa a sua volta trasformarsi in barbaro sotto il pretesto di difendere la civiltà, come quando la tortura è accettata per la lotta contro il terrorismo. “Quando combatti un mostro, fai attenzione a non diventare un mostro tu stesso”, ammoniva Nietzsche. Tuttavia resta un paradosso. Facciamo del nostro meglio in questi tempi per crescere i nostri figli in modo corretto. Li istruiamo, insegnando loro buone maniere, cortesia e carità. Abbiamo cura di democrazia, legge, pace e delle grandi opere della cultura occidentale. Ma molti di noi ritengono comunque che il nostro modo di vivere, se fosse generalizzato su scala mondiale per una notte, porterebbe a un offuscamento smorzante dell’anima. Per dirlo altrimenti, abbiamo bisogno di mostri contro i quali combattere. L’uomo civilizzato deve costantemente guardare la barbarie in faccia, per ricordare da dove viene e ciò che potrebbe diventare di nuovo.

L’Europa e l’America hanno atteggiamenti diversi. Dal 1945 l’Europa è perseguitata dallo spettro di “esplosioni di bestialità collettiva”, come le ha definite Stefan Zweig: una nuova Auschwitz, un nuovo gulag. La violenza è diventata il tabù più potente dell’Europa. Alcuni osservatori addirittura suggeriscono che gli inni nazionali non dovrebbero più essere cantati prima delle partite di calcio, per evitare di suscitare sentimenti sciovinisti. Eppure come si può non vedere che i campi da calcio sono sostituti per i campi di battaglia o che le zuffe tra i tifosi − o addirittura i disordini del dopo partita − sono preferibili ai conflitti di fanteria e di carri armati? L’America, al contrario, mostra la sua violenza con un certo candore. Ciò che affascina noi vecchi Europei è la combinazione di violenza e sentimentalismo della nazione americana, simboleggiata dai suoi ambigui eroi: il cowboy, lo sceriffo e il vigilante, tutti sul punto di rompersi, di immergere tutto nel caos per riorganizzare la legge su linee più giuste. L’ordine negli Stati Uniti non è mai semplicemente ordinato, come in Europa; sembra sempre sull’orlo del disordine, pronto a essere spazzato via da qualche sorta di violenza incontrollabile.

Due sogni si confrontano nelle democrazie occidentali. Quello europeo vuole sradicare la malvagità umana per mezzo del dialogo, della tolleranza e di costanti rievocazioni degli orrori passati. Quello americano vuole mettere gli aspetti oscuri della natura umana al servizio del miglioramento sociale: immagina una barbarie creativa, analoga alla catarsi greca. Entrambi i sogni incitano a difendere la legge, la civiltà e la decenza contro la ferocia, sapendo perfettamente che abbiamo bisogno della violenza per mantenerci all’erta. Vogliamo sconfiggere il barbaro ma anche preservarlo, in modo da preservare l’energia che instilla in noi. Il barbaro è per noi sia detestabile che desiderabile.

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