La geopolitica e le virtù secondo Aristotele

12/09/2019

Riassunto da un articolo di George Friedman per Geopolitical Futures

 

Come Tommaso d’Aquino, Maimonide o al-Farabi, anche io ritengo che Aristotele sia stato uno dei massimi pensatori di tutti i tempi. Aristotele definì in modo semplice, ma chiaro ed efficace, le quattro virtù che deve avere un uomo. Considerava il coraggio la virtù di livello più basso, ma anche la base su cui poggiano le altre. Quando pensiamo al coraggio pensiamo alla guerra, ma per Aristotele il coraggio era soprattutto la capacità di mantenere la propria indipendenza di pensiero e la propria opinione contro la pressione della maggioranza, benché il bisogno di essere benvisti sia tanto forte da indurci a tradire noi stessi (esattamente quello che Socrate rifiutò di fare).

Il coraggio è anche una forma di pazzia che può indurre a correre rischi sproporzionati e in maniera sconsiderata; Aristotele disprezzava questa forma di invasamento. Individuava infatti come seconda virtù la prudenza, che è lo strumento con cui si misura e tempera il coraggio. Essere disposti a morire non equivale a gettarsi in braccio alla morte. Occorre saper valutare se vale la pena rischiare la vita per necessità, o se si possono usare altri mezzi.

Ma la prudenza da sola induce a un calcolo che trascura del tutto la passione. Il coraggio resta indispensabile perché la prudenza senza il coraggio fissa il prezzo di tutto, ma di nulla riconosce il valore. Il coraggio senza la prudenza si traduce invece in avventatezza. Occorre dunque trovare un equilibrio tra coraggio e prudenza, il che non è semplice. Qui secondo Aristotele interviene la terza virtù: la giustizia. Quando si è trattenuti dalla prudenza, la giustizia spinge ad agire, prende la mediocrità della prudenza e del coraggio e le trasforma in un imperativo morale. La prudenza diventa un’ancella della giustizia, garantendo che il coraggio venga usato al meglio, per il perseguimento di ciò che è giusto.

Chiaramente anche la giustizia ha una natura misteriosa. È l’interesse della mia nazione? È l’insegnamento del mio Dio? È il diritto del più forte di governare sul più debole? Secondo la geopolitica i rapporti tra le nazioni sono dettati dal coraggio e dalla prudenza e la giustizia è semplicemente espressione dell’interesse di ogni nazione. Ma se la giustizia si riducesse a questo, sarebbe lontana dall’essere un valore vincolante. Solo un pazzo sconsiderato darebbe la vita per interesse, l’idea ripugnerebbe a tutti gli altri. Gli esseri umani hanno bisogno di dedicare la propria vita, i propri averi e il proprio onore a qualchecosa di più vero e di più nobile. Ma dove trovarlo? Nei costumi e nelle consuetudini della mia gente o in una nuova era forgiata da una rivoluzione? Negli USA i Padri fondatori risolsero il dilemma unendo le due cose e questo ha funzionato, anche se le tradizioni e i principi morali della rivoluzione sono sempre stati compagni scomodi. Così è stata inventata l’America, così anche la giustizia può essere inventata, ma ha bisogno di essere accompagnata da una narrazione seducente, che distolga dalla complessità del reale.

Ecco che entra in gioco la quarta virtù: la saggezza. La saggezza permette di distinguere ciò che è importante da ciò che non lo è. È la virtù che dovrebbero possedere i filosofi. La saggezza sa che la giustizia è assolutamente necessaria, capisce che il fatto che sia necessaria non implica necessariamente che esista. Il fatto che esista non implica che sia messa in pratica qui e ora. E il fatto che sia messa in pratica non significa che gli uomini ci credano. La saggezza permette di comprendere i bisogni e i limiti dell’uomo e la magnificenza del bello e del vero e al tempo stesso comprende la tragedia dell’essere umano, ossia che il bello e il vero accecherebbero i più; questi possono tollerare soltanto un surrogato, ossia una narrazione costruita sulla verità, ma espressa in forma di menzogna al fine di sedurre, per assecondare la giustizia di cui hanno bisogno, piuttosto che la giustizia ‘vera’. La saggezza è la forma più alta di prudenza, così come la giustizia è la forma più alta di coraggio.

Platone teorizzò la nobile menzogna, basata su una verità che gli uomini non potrebbero sostenere e che dunque viene presentata loro nella forma che richiedono. I pochi uomini saggi riconoscono il vero e il bello e sanno che contemplarlo condurrebbe l’uomo comune alla pazzia o alla cecità. Pertanto è necessaria una menzogna che poggi sulla verità e che diventi la base sulla quale gli uomini innestano il proprio coraggio. La saggezza conosce i limiti della verità.

La storia di Mosè è esemplificativa in tal senso. Giunto in vista della Terra Promessa, Dio non permise a Mosè di raggiungerla. Dio sapeva che Mosè era capace di guidare la rivolta contro l’Egitto e persino contro Dio stesso, ma non sapeva governare, dunque gli impedì di raggiungere la Terra Promessa, sostituendolo con Giosuè, una figura minore, un uomo che, pur non avendo mai parlato con Dio, credeva che Dio avesse parlato. Giosuè era un guerriero, un uomo di coraggio che credeva nella giustizia della sua causa, ma non fu mai saggio come Mosè: questo lo rese adatto a servire gli interessi geopolitici del suo popolo, senza essere turbato da cose al di sopra di lui.

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