Nei primi decenni del 1900 la politica nella nuova società industriale e laica di massa fu gestita da una élite che si era formata leggendo il testo di Gustave Le Bon, ‘La psicologia delle folle’, pubblicato nel 1895. Le Bon aveva osservato il comportamento delle folle durante la Comune a Parigi nel 1871 e aveva poi approfondito lo studio del ruolo delle masse nel periodo della Rivoluzione francese, del Terrore, dell’ascesa e della caduta di Napoleone. Inventore, antropologo, psicologo e sociologo, le Bon seppe presentare in modo sintetico, chiaro e convincente le sue convinzioni maturate sul ruolo dei capi e delle folle nella storia dei popoli, e sullo stile di comunicazione da usare per dominare le folle, conoscendone la psicologia. Erano argomenti che iniziavano a suscitare grande interesse e largo dibattito fra gli intellettuali europei.
Il testo di Le Bon divenne una specie di ‘manuale’ operativo per dittatori con ideologie politiche e sociali diversissime. Lenin, Mussolini, Hitler, Stalin studiarono il testo di Le Bon − e ne utilizzarono le osservazioni per gestire il potere tramite il rapporto personale con folle organizzate. Altri dittatori usarono le stesse tecniche nel XX secolo, e l’utilizzano ancora. Gli storici in questo caso parlano di ‘culto della personalità’ del dittatore, ma è fuorviante. I dittatori venivano obbediti e onorati in quanto personificazione del popolo e della sua volontà, non in quanto persone. Nel dittatore il popolo adorava se stesso, attraverso la sua volontà credeva di realizzare un grande destino comune, e questa credenza aveva la forza di una fede religiosa profonda.
Le Bon aveva una visione profondamente pessimista della folla: ‘l’individuo nella folla è un granello di sabbia tra altri granelli di sabbia che il vento solleva a suo piacere…’. Non ha importanza il livello intellettuale dei componenti la folla, perché la folla comunque non ragiona, è percorsa da ondate di emozioni collettive che si propagano, dice le Bon, per contagio, e attraverso la ripetizione originano potenti credenze, verità di fede. La folla non ha volontà propria, ma cerca un capo, che le imponga la sua volontà, tramite affermazioni ripetute come dogmi, sempre con le stesse parole, in tono imperioso, abusando di dichiarazioni violente; e tramite l’appello continuo ai sentimenti, alle emozioni, mai al raziocinio. ‘Gli dei, gli eroi e i dogmi si impongono e non si discutono: quando si discutono svaniscono’, aveva scritto le Bon.
Per eccitare i sentimenti, il capo usa parole e scenografie che evocano immagini ‘impressionanti e precise’, anche se logicamente sconnesse fra di loro, che esaltano il suo prestigio e il prestigio della ‘fede’ che afferma.
Mussolini mise in atto i suggerimenti di Le Bon per conquistare e gestire il potere. Hitler imitò dapprima Mussolini, poi superò di gran lunga il maestro. Entrambi i dittatori volevano creare il culto della nazione, dapprima per fermare il rischio di guerra civile, poi per creare solidarietà interna durante la crisi economica, poi per attaccare in guerra altri popoli. Mussolini improvvisò il ruolo di capo delle folle senza averlo molto interiorizzato, con esiti talora grotteschi. Hitler capì che i capi che fondano credenze indiscutibili, esigendo fede e obbedienza, debbono presentarsi non come persone, per quanto straordinarie e autorevoli e potenti, ma come l’incarnazione della volontà del popolo stesso, della folla che, onorandoli, onora se stessa.
Mussolini cedeva al desiderio di protagonismo, voleva sedurre e piacere, voleva eccellere, voleva distinguersi, sfoggiava sempre nuovi abiti, copricapo e divise; ballava nelle balere con le donne del popolo; si metteva a petto nudo spogliandosi in pubblico. Talora parlando esagerava con le smorfie, perdendo di autorevole efficacia. Mussolini si mise direttamente a confronto con Hitler, tenne persino un discorso in tedesco in Germania, ma la sua oratoria sembrava sforzata. Hitler invece si presentava nel modo meno personale possibile, senza orpelli, senza mostrarsi in pose e attività che non fossero quelle di un capo assoluto o di un gran sacerdote, e cancellava rigorosamente qualunque carattere individuale. Voleva essere simbolo, personificazione della volontà e del potere della nazione. Altrettanto avrebbero fatto Mao Tse Dong, il capo dei Khmer Rossi Pol Pot (che addirittura a lungo non rivelò neppure il proprio nome personale, ma si definì ‘fratello primogenito’) e Kim il Jong in nord Corea.
L’eloquio di Hitler in pubblico, e i gesti che accompagnavano le parole, avevano soltanto due registri: l’affermazione impositiva e l’ispirazione profetica e maledicente. Mai una parola che esprimesse possibilità o dubbio. Mai una parola che sembrasse uno scherzo o una battuta. Mai una risata, soltanto un abbozzo di sorriso per dimostrare di apprezzare gli omaggi. Mai sorrisi aperti, amichevoli, da pari che riconosce un suo pari. Si dice che così fosse anche l’espressione facciale di Napoleone.
A proposito di Napoleone, Le Bon aveva scritto: ‘Maltrattate gli uomini, massacrateli a milioni, provocate invasioni su invasioni, tutto vi è permesso se possedete un sufficiente grado di prestigio e il talento necessario per mantenerlo…’. Per creare il massimo prestigio e suscitare emozioni intense, Hitler organizzava per ogni suo discorso coreografie straordinarie, riti solenni con la partecipazione di centinaia di migliaia di persone, lunghe processioni e cerimonie di omaggio ai simboli della fede nazista, con musiche solenni e commoventi. Ogni spostamento avveniva fra folle osannanti e festanti.
Tutte le cerimonie e i discorsi venivano filmati dalla regista Leni Riefensthal. Ne vennero tratti due film i cui titoli esprimono i due concetti base dell’ideologia nazista: ‘La vittoria della fede’, che inizia con lo scampanio che annuncia la buona novella della resurrezione della Germania, e ‘Il trionfo della volontà’, che inizia con la discesa di Hitler dall’alto dei cieli dentro alla città di Norimberga, fra ali di folla in festa.
In ogni discorso Hitler ripeteva le stesse affermazioni, all’incirca con le stesse parole. Erano i dogmi della fede nazista: la Germania è creata e voluta da Dio; il popolo tedesco è uno solo, senza divisioni sociali o politiche; il popolo tedesco ha una sola volontà; il popolo tedesco deve obbedienza a questa volontà, di generazione in generazione, per eredità di sangue. La vittoria del popolo tedesco è certa ed è eterna, se certa ed eterna è la fede del popolo nella Germania.
Tutte le grandiose cerimonie, i lunghissimi e rigorosi rituali, le processioni, gli squilli di tromba, il rullar di tamburi, le fiamme ardenti e le luci, il grande podio elevato su cui Hitler stava sempre solo come un profeta o un re, implicava e metteva in scena un’altra verità della fede: Hitler stesso era la volontà sovrana del popolo tedesco, che è legge assoluta.
Le Bon aveva anche osservato che ‘la vera guida dei popoli sono le tradizioni (...) I conservatori più tenaci delle idee tradizionali ... sono proprio le folle’, per cui il capo deve utilizzare sentimenti e tradizioni radicate, e trasformarne il significato attraverso la ripetizione, in modo da piegare ai propri scopi la tradizione. Hitler e Mussolini stipularono concordati con la chiesa cattolica e utilizzarono gli elementi chiave del cristianesimo e il prestigio della chiesa a proprio favore. Hermann Rauschning scrisse che Hitler così parlò del concordato alla cerchia dei suoi collaboratori, di cui Rauschning stesso faceva parte: ‘Ciò non mi impedirà di sradicare totalmente il cristianesimo dalla Germania, di eliminarlo in maniera completa, radicale e definitiva. È una questione decisiva: o il nostro popolo ha una fede ebraico-cristiana, con la sua morale molle e compassionevole, oppure una forte ed eroica fede nel dio della natura, nel dio del proprio popolo, nel dio del proprio destino, nel dio del proprio sangue [...] Non è possibile essere cristiani e tedeschi insieme’.
Questo progetto fu subito chiaro agli osservatori contemporanei più acuti. Viktor Klemperer, professore di semiotica all’Università di Dresda, ebreo, che sfuggì alla deportazione grazie alla moglie ‘ariana’, scrisse negli appunti, poi pubblicati con il titolo di LTI (Lingua Tertii Imperii), cioè la Lingua del Terzo Reich: ‘che la LTI sia nei suoi momenti culminanti una lingua della fede è pienamente comprensibile, dato che ha come obbiettivo il fanatismo. Però l’aspetto singolare è che in quanto lingua di fede si ricollega strettamente al cristianesimo o, più esattamente, al cattolicesimo, benché il nazionalsocialismo combatta fin dagli inizi il cristianesimo, e più precisamente la Chiesa cattolica’. […] ‘Appare manifesta la tendenza a rifarsi alla trascendenza cristiana: mistica del Natale, martirio, risurrezione, consacrazione di un ordine cavalleresco si ricollegano (nonostante il loro paganesimo)….alle azioni del Führer e del suo partito’. Il contenuto del messaggio veniva stravolto e rovesciato, ma mantenendo le solite tradizioni, le solite immagini, perciò la maggior parte delle persone non se ne accorgeva. Nella rivista distribuita ai Tedeschi a Natale 1944 si vedevano ad esempio queste immagini, suggellate da questo messaggio di Hitler: ‘Tutta la natura è una gigantesca lotta fra la destrezza e la debolezza, un’eterna vittoria dei forti sui deboli’.
Hitler esaltò l’idea del martirio, più di qualunque altra ideologia di aggressione e di conquista apparsa nel mondo moderno, prima dell’islamismo jihadista. Si tenevano grandi cerimonie in memoria dei ‘martiri’ nazisti, morti durante la guerra civile, prima della presa del potere. Le bandiere che si sosteneva fossero state inzuppate del loro sangue venivano usate per ‘consacrare’ i nuovi vessilli. ‘Ogni volta che tocca le bandiere parte un colpo di cannone. Che mescolanza di regia chiesastica e teatrale! E a parte la scenografia teatrale, già solo il nome basterebbe: «Blutfahne», bandiera di sangue. (…) Tutta la questione nazista mediante un’unica parola viene innalzata dalla sfera politica a quella religiosa. E scena e parola hanno senz’altro il loro effetto, le persone siedono in atteggiamento intensamente devoto, nessuno starnutisce o tossisce, nessuno fa scricchiolare un cartoccio, non si sente masticare una caramella. Il congresso del partito è una funzione sacra, il nazionalsocialismo una religione. Il nazismo venne percepito da milioni di persone come un vangelo, perché si serviva della lingua del Vangelo’.
Oggi tutto ciò si ripete: i jihadisti che vogliono motivare le folle a uccidere i loro vicini in nome di Allah si servono della lingua del Corano e delle tradizioni islamiche.
Nei diari di Goebbels, al 10 febbraio 1932 si riferisce di un discorso di Hitler al Palazzo dello sport: ‘Verso la conclusione il suo discorso assume uno straordinario, incredibile pathos oratorio e termina con la parola “amen”; questo appare così naturale che tutti ne rimangono profondamente scossi e commossi… Le masse del Palazzo dello sport si abbandonano a un folle delirio…’.
Scrisse Klemperer: ‘Dal 1933 al 1945, fin quando la catastrofe di Berlino era già in pieno svolgimento, giorno dopo giorno è proseguita l’opera di divinizzazione del Fuhrer. L’accostamento della sua persona e delle sue azioni al Salvatore e alla Bibbia’.
A giugno ‘37 a Wurzburg Hitler tenne un discorso tutto imperniato sul concetto che ‘La Provvidenza ci guida, noi agiamo secondo la volontà dell’Onnipotente. Nessuno può fare la storia dei popoli e del mondo se non ha la benedizione di questa Provvidenza’. Tutti i discorsi di Hitler erano zeppi di espressioni prese dal linguaggio della fede e del martirio.
A marzo 1938 a Linz, in Austria, la sua città natale, così parlò agli Austrici, poco prima del referendum che avrebbe sancito l’annessione: ‘Quando la provvidenza mi chiamò un tempo fuori da questa città per prendere la guida del Reich, deve aver inteso assegnarmi un incarico… restituire la mia cara patria al Reich tedesco... Ho avuto fede in questo incarico, ho vissuto e lottato per questo, e credo di averlo ora portato a termine’. I soldati tedeschi sono ‘combattenti pronti al sacrificio, desiderosi di sacrificio, per realizzare l’unità di tutto il grande popolo tedesco, per la potenza del Reich, per la sua grandezza e per il suo dominio, ora e sempre’. Così Hitler presentò l’annessione dell’Austria alla Germania, cui seguì l’uccisione di tutti i possibili oppositori.
All’inizio della guerra, nel 1939, la fede del popolo tedesco nella Germania, cioè in se stesso, e in Hitler suo capo e suo salvatore, inviato dalla provvidenza, era salda. Quel popolo obbedì agli ordini e compì imprese orrende, disumane. Soltanto la disfatta totale distrusse quella fede, lentamente, con difficoltà.
Ad aprile 1945, quando la sconfitta era ormai ovvia, Klemperer registrò questa conversazione in una birreria: ‘Sono solo un caporale; non mi intendo abbastanza di strategia per poter dare un giudizio, ma il führer ha dichiarato recentemente che vinceremo di sicuro e lui non ha mai mentito. A Hitler io credo. No, Dio non l’abbandonerà, a Hitler io credo’. Nel 1946, un anno dopo la sconfitta, Klemperer incontrò un ex studente, in difficoltà perché non aveva il certificato di ‘riabilitazione’ necessario per poter lavorare negli uffici pubblici. Si stupì, perché sapeva che quello studente non aveva fatto politica attiva «Come mai non l’hanno riabilitata?» chiese. «Perché non ho fatto domanda e non posso farla (….) Non posso negarlo, ho creduto in lui…. Sono gli altri che lo hanno frainteso, che lo hanno tradito. In lui, in LUI, io continuo a credere».
Fin quando avrà continuato a credere?
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