Tradizione e modernità dall'emancipazione ai giorni nostri
di Alberto Cavaglion

04/03/2021

Il testo riassume l’intervento del Prof. Alberto Cavaglion in occasione della prima lezione del seminario “L’ebraismo in Europa. Un percorso storico, linguistico e letterario”, il 3 marzo 2021. 

In calce, la bibliografia indicata dal relatore.

 

Per la lezione odierna mi appoggio al testo di Anna Foa Diaspore, pubblicato da Laterza, che affronta il periodo dell'ingresso degli Ebrei nella società con diritti di eguaglianza, cioè con l’emancipazione, e segue e distingue i diversi cammini e le diverse trasmigrazioni di intere comunità nel corso del XIX e XX secolo in Europa.

Cercherò innanzitutto di darvi un piccolo lessico di parole che useremo e che sono parole spesso incandescenti, fonti di equivoco, di cui va sgombrato il terreno. Parole che ritornano di continuo quando si parla di storia degli Ebrei, spesso confondendole l’una con l’altra come se fossero la stessa cosa o appartenessero allo stesso discorso, quando invece hanno storia e tradizioni molto diverse.

La prima parola è antisemitismo. È molto diffusa la tendenza a pensare che la storia dell’ebraismo coincida con la storia dell’antisemitismo, cosa che non è assolutamente vera anche se una parte cospicua della storia della presenza ebraica in Europa ha coinciso con lo sviluppo di ideologie identitarie e politiche che hanno portato a ondate persecutorie più o meno crudeli. Gli Ebrei hanno incominciato a fare storia di sé stessi nel momento in cui sono diventati cittadini liberi, cioè nel periodo dell’emancipazione che esamineremo oggi. Il pendolo della storiografia ebraica fino all’emancipazione è stato dato dai tempi e dalla cronologia della narrazione biblica. Soltanto a partire dalla seconda metà dell’Ottocento in Europa è nata una storiografia vera e propria, non soltanto da parte degli Ebrei.

Un altro equivoco terminologico è quello che considera antisemitismo e antigiudaismo come sinonimi; ancor più diffuso è l’equivoco che antisemitismo e razzismo siano sinonimi e cioè che si possano tranquillamente sovrapporre le due storie, quella dell’antisemitismo e quella del razzismo, che sono invece ben distinte. L’antisemitismo nasce nei secoli più bui nel Medioevo, anche prima. Fin dal tempo dei Romani è esistita una forma di intolleranza e di insofferenza verso questa particolare comunità. Il razzismo invece è frutto della modernità, è fenomeno di dimensioni vastissime soprattutto nel XIX secolo, quando ispirava le tesi scientifiche e i principi del diritto nelle università. La storia del razzismo coincide praticamente con l’affermazione dei diritti di uguaglianza, frutti dell’Illuminismo, che dopo la Rivoluzione francese garantiscono alle minoranze religiose il diritto di cittadinanza. Per una sorta di corto circuito o vizio di forma si sviluppa contemporaneamente in Europa il principio contrario della diseguaglianza e della differenza fra cittadini, con le prime teorizzazioni scientifiche e filosofiche, che nella seconda metà dell’Ottocento si incrociano e si sovrappongono e forgiano l’antisemitismo moderno. Possiamo identificare due momenti storici precisi in questo percorso storico: la guerra franco-tedesca del 1870 e l’affare Dreyfus con le sue conseguenze. Prima in Francia e poi in tutta Europa l’affare Dreyfus diventa strumento di battaglia politica, entra nel grande fiume dell’intolleranza moderna e quindi anche del razzismo.

C’è poi da aggiungere a questo piccolo il vocabolario di parole ‘malate’ la parola sionismo, che io metto insieme alla parola antisionismo. Queste due ultime parole appartengono a una fetta di storia molto più breve, perché il sionismo nasce negli anni ’80 e ’90 del XIX secolo e si conclude con la nascita dello Stato di Israele nel 1948. In questo periodo si sviluppò il movimento di risorgimento nazionale ebraico, che ebbe il nome di sionismo dal nome del monte Sion a Gerusalemme. Il sionismo sogna il ritorno alla terra, è l’ultimo processo risorgimentale classico dell’Ottocento. Subito a fianco insorge e si sviluppa il suo contrario, l’antisionismo, anche fra gli Ebrei stessi, anche in Italia. Figli del Risorgimento italiano, molti Ebrei italiani nutrivano forti sentimenti nazionali. Questo ebbe riflessi significativi anche nell’adesione degli ebrei italiani al fascismo negli anni 1920-1930. Accanto al lucido antifascismo di un Vittorio Foa o dei fratelli Rosselli ci fu una notevole adesione degli Ebrei italiani al fascismo nei suoi primi anni. Costoro aderivano a una visione dell’identità riconducibile al risorgimento nazionale, ostile per definizione a una doppia nazionalità, dunque contrari al sionismo. Ma anche i concetti di sionismo e antisionismo vanno capiti nel loro contesto storico, non attribuendo loro significati anacronistici che ne fanno parole ‘malate’. Il caso più clamoroso di anacronismo è pensare che la parola razza fosse nel tardo Ottocento e primo Novecento una parola malata. Basta aprire un libro con le poesie di Carducci o dello stesso Manzoni o di un qualunque intellettuale dell’Ottocento per vederne un uso sano e bonario, sinonimo di ‘genere umano’.

Il segno di un cambiamento radicale delle condizioni di vita della storia degli Ebrei in Europa non fu la Seconda guerra mondiale con le persecuzioni di Mussolini, ma le leggi di emancipazione che li resero uguali agli altri. Allora gli Ebrei cessarono di essere quello che erano stati per lunghi secoli: reclusi, sottoposti a restrizioni particolari, separati dal corpo sociale. Questo trasformò la condizione interna – religiosa, culturale, psicologica – dell’ebraismo stesso, che iniziò ad analizzare se stesso nel corpo di una società moderna, in modo totalmente diverso da quello che era stato in passato.

Il processo dell’emancipazione non avvenne in contemporanea in tutta Europa; dal ritardo o dall’anticiparsi dei principi di uguaglianza discesero molte conseguenze. Tutto nasce con la Rivoluzione francese; dalla Francia i processi di emancipazione si diffondono in tutta l’Europa occidentale. In Italia si affermarono con lo statuto di Carlo Alberto del 1848.

Questo passaggio rivoluzionario che trasformò le identità ebraiche in modo irreversibile non avvenne nell’Europa orientale sotto il dominio zarista, dove gli Ebrei erano molto numerosi e dove fiorì la meravigliosa letteratura yiddish. Qui nel 1917 gli Ebrei passarono direttamente da un sistema di tipo feudale medievale − quello dello zar − al sistema ultramoderno utopistico dell’Unione Sovietica, senza conoscere la fase intermedia della società liberale e la lunga stagione dell’eguaglianza che invece caratterizza molti paesi dell’Europa centro occidentale. Questa è la prima distinzione di fondo, che rende enormemente diversa la storia di un Ebreo di Trieste, Torino o Parigi rispetto a quella di un Ebreo che venga da Pietroburgo o da un centro urbano di un paese dell’est. Sul piano dei diritti, della politica, delle idee sono due mondi separati che si intersecheranno soltanto in tempi vicini a noi.

La domanda fondamentale da porre per capire questo processo sul lungo periodo è perché il processo di equiparazione dei diritti, nato sotto i migliori auspici con la Rivoluzione francese, in alcuni paesi abbia attecchito e nel XX secolo abbia resistito agli attacchi dei sistemi totalizzanti, perché invece in altri paesi, soprattutto in Italia e Germania, sia franato sotto gli attacchi delle dittature. In questi paesi lo stato si definiva liberale, ma di fatto non lo era, se il sistema di potere poté crollare così facilmente. In tutta Europa le istituzioni degli stati nazionali vennero sconvolte dalla tragedia della Prima guerra mondiale, mettendo in crisi tutti questi percorsi di libertà ben prima delle persecuzioni di Mussolini. La storia che stiamo iniziando a conoscere oggi con questa relazione è una storia dannatamente complicata: vi si intersecano questioni economiche, questioni religiose, politiche di identità psicologica molto serie. Per capirla occorre uscire dagli schemi semplificatori.

In Italia il processo di integrazione si realizzò su basi fragili, con molte incertezze, anche alimentate dalla presenza in Italia dello Stato pontificio. Tuttavia il processo di emancipazione ci fu ed ebbe un risultato di integrazione o assimilazione. Occorre distinguere le due parole: assimilazione vuol dire più o meno la stessa cosa ma con una piccola annotazione maliziosa di perdita dell’identità. La stessa questione di integrazione o assimilazione si poneva nello stesso periodo anche agli abitanti delle varie regioni italiane coinvolte nel percorso di unificazione della nazione. Le parole integrazione e unificazione sono il tema centrale della storia italiana dell’Ottocento. Alcuni storici hanno affermato che nell’Ottocento gli Ebrei sarebbero diventati Italiani contemporaneamente ai Napoletani, Piemontesi, Siciliani, perdendo la propria identità.

Nel processo di integrazione le minoranze dovevano mettere a disposizione di tutti i valori tradizionali di cui erano portatrici. Nel caso specifico dell’ebraismo l’Ottocento è l’epoca delle grandi traduzioni dei testi biblici.

In Italia le diversità regionali determinarono una straordinaria differenza anche fra gli Ebrei di regioni diverse. Faceva un’enorme differenza essere un Ebreo nato nel Triveneto o a Torino o a Firenze o peggio ancora nello Stato pontificio. Una città come Trieste, che aveva l'esperienza della diversità multietnica, portava dentro di sé una serie di elementi culturali che la ponevano agli antipodi di Torino. La psicanalisi, ad esempio, suscitò un interesse travolgente a Trieste all’inizio del Novecento, suscitò ostilità a Torino, dove trionfava il positivismo di Lombroso.

Guardando la storia sul lungo periodo, quello che accade nell’Europa degli anni ’30 del XX secolo non è affatto nuovo o rivoluzionario. Quello che si inizia a leggere o ad ascoltare, prima in Germania poi in Italia, è il riaffiorare dalle viscere del passato di qualche cosa che aveva fatto parte integrante della storia europea per secoli. Basta confrontare un saggio di un polemista mussoliniano firmatario del Manifesto della razza nel 1938 con il saggio contro l’emancipazione di qualche intellettuale italiano o piemontese prima del 1848. Le motivazioni, le argomentazioni, i luoghi comuni e i pregiudizi sono esattamente gli stessi. È come se in quegli anni le lancette della storia ritornassero indietro e ci facessero precipitare indietro di 90 anni. Molto importante per uno storico è capire perché questo passo indietro di 90 anni sia riuscito in Italia e in Germania e non in Francia, ad esempio, pur in presenza di partiti e movimenti che propugnavano l’odio contro gli Ebrei. Evidentemente la struttura statale era più solida e dotata di maggiore difesa contro le ondate dei sistemi totalitari. Le ragioni della debolezza dello Stato italiano furono

la sua giovane età, la sua fragilità, le divisioni della classe politica? Rimane comunque accertato che nei primi decenni dello Stato gli Ebrei stessi contribuirono alla sua costruzione entrando autorevolmente in ogni campo professionale: nell’insegnamento, nelle professioni, nella vita politica. Si pensi al ruolo di Ludovico Mortara, Ministro della giustizia nel governo Notti, o Enrico Nathan, sindaco di Roma.

Occorre considerare anche gli ordinamenti giuridici. Nel 1931 in una città come Torino un professore universitario di diritto poteva giurare fedeltà al regime, segno che non amava l’idea della separazione dei poteri e il principio della libertà religiosa. C’era una grandissima differenza tra l’ordinamento giuridico di paesi come l’Italia e la Germania e quelli dei paesi anglosassoni dove per antica tradizione le società liberali prevedevano la netta separazione tra Stato e Chiesa − o Chiese; uno dei principi cardine della società liberale insieme a quello della separazione dei poteri. In Italia già dopo la morte di Cavour i governi della destra storica fanno ben pochi sforzi per applicare il principio della libera Chiesa in libero Stato. Il culto cattolico rimase ben protetto dallo stato ben prima del Concordato. Nei paesi anglosassoni, invece, le minoranze religiose si costituiscono ancora oggi come libere associazioni di cittadini che non rendono conto allo stato di questa loro partecipazione. Lo stato si definisce non competente in qualunque faccenda riguardi la vita religiosa di un individuo. Nei paesi dove invece è sorta una logica pattizia o concordataria si sviluppa una condizione giuridica totalmente diversa, in cui le confessioni religiose ritengono giusto che la vita religiosa dei fedeli venga organizzata e normata secondo determinati principi imposti dallo Stato. Sostanzialmente minoranze e maggioranze delegano la propria vita religiosa a una forza esterna a sé e lo stato impone alle diverse comunità religiose un ordinamento amministrativo, quasi fossero piccoli comuni. L’ordinamento italiano non è cambiato nel secondo dopoguerra. Le logiche del concordato sono rimaste e riguardano tutte le comunità religiose.

Il processo di emancipazione si realizzò con caratteristiche diverse nelle diverse regioni italiane, ma con grande rapidità, anche in politica. In Piemonte, per esempio, i giovani Ebrei abbracciarono in gran numero gli ideali socialisti. Molti abbracciarono l’insegnamento; il patrimonio culturale della loro fede antica li portò a raggiungere subito livelli di eccellenza nelle lettere classiche. Grande fu il ruolo delle donne ebree nella scuola; costituirono un nucleo di bravissime maestre elementari, applicando la tradizione ebraica che vede nella donna il primo e principale veicolo di trasmissione dei valori. L’integrazione portò anche all’abbandono dell’insegnamento dell’ebraico ai bambini ebrei, con conseguente perdita di comprensione dei testi, al moltiplicarsi di matrimoni misti, a ondate di conversioni e abbandono delle tradizioni.

A questo lento processo di abbandono dell’identità volle porre argine l’ebraismo riformato, che prese piede fin nei primi anni di emancipazione. La riforma segna e accompagna tutta una serie di cambiamenti: nasce la storiografia ebraica, nasce una letteratura moderna ebraica, nasce un nuovo metodo di analisi delle scritture con gli strumenti propri della filologia, si incrina l’identità ebraica basata sull’ortodossia. Si scopre che i testi biblici sono il frutto di una stratificazione di redazioni. Si tratta di un processo analogo a quello che avvenne nel Cristianesimo all’epoca della Riforma e della Controriforma. Oggi, soprattutto in America ma anche in molti paesi europei, c’è una gran varietà di comunità riformate che osservano ritualità diverse da quelle dell’ortodossia, celebrate dalle donne così come dagli uomini.

L’Italia rappresenta un’anomalia, perché non ha visto la grande affermazione dell’ebraismo riformato, come quello che si diffuse in Inghilterra o nel mondo tedesco, che svilupparono un’ondata di nuova grande cultura ebraica, dalle scienze alla letteratura alla musica. Probabilmente fu proprio la conseguenza della logica pattizia fra lo Stato e i culti riconosciuti che rendeva (e ancora rende) molto difficile il riconoscimento e quindi la sopravvivenza di comunità riformate, staccate dalla comunità ortodossa di origine.

Ma questo proficuo processo di ridefinizione dell’identità ebraica in Europa subì una prima crisi in conseguenza della guerra franco-tedesca del 1870, cui seguì la guerra civile in Francia. Il tracollo e l’umiliazione della Francia e la conseguente crisi economica svilupparono fra i nazionalisti francesi la sindrome del tradimento della Patria.

Pochi anni dopo la sconfitta un caso di cronaca giudiziaria divenne in brevissimo tempo un caso di grande impatto mediatico: un militare francese ebreo, con un cognome vagamente tedesco in quanto di origini alsaziane (Dreyfus), venne accusato di aver passato segreti militari al nemico. Il processo durò un tempo lunghissimo, eccitò gli animi al sospetto, alla paura e all’odio. Alla fine l’innocenza di Dreyfus venne riconosciuta grazie all’intervento di intellettuali quali Zola, ma ormai era chiaro che l’antisemitismo poteva essere arma efficace di lotta politica. A fine secolo i movimenti risorgimentali unitari e liberali avevano ormai ceduto il passo all’insorgere di partiti conservatori e partiti socialisti. L’antisemitismo divenne in tutta Europa elemento di trasformazione del panorama politico, usato da tutti i movimenti politici, pur se per scopi diversi.

Le cose peggiorarono ulteriormente quando da oriente, negli anni in cui il caso Dreyfus era sulle prime pagine dei giornali, giunse notizia delle prime persecuzioni antiebraiche in Russia e cominciarono a circolare, tradotti in lingue europee, una serie di libelli di propaganda presentati come verbali di una riunione di capi di comunità ebraiche che avrebbero tramato contro il mondo intero. Si trattava di un falso confezionato dalla polizia segreta zarista per creare un diversivo all’opinione pubblica interna che non tollerava più la politica zarista. Il libello (I Protocolli dei Savi di Sion) divenne un assoluto bestseller, letto da svariate generazioni di Europei. I lettori di questo libello finiranno facilmente nelle file fasciste e naziste. Così il combinarsi e sovrapporsi nello stesso periodo di due imprevedibili avvenimenti, uno in Francia e uno in Russia, creò una miscela esplosiva che agitò il mondo ebraico, che si ritrovò esposto a pericoli ed esclusioni che si pensavano ormai archiviate. Si diffuse la sensazione di pericolo, anche nelle città europee in cui gli Ebrei potevano svolgere liberamente qualunque attività. La delusione fu grande, dopo le speranze dell’emancipazione e fece sorgere l’idea che per salvare gli Ebrei dalle persecuzioni zariste (problema umanitario che si poneva con gravità e urgenza) e per scongiurare un ritorno alla ghettizzazione occorreva garantire agli Ebrei una terra.

A seguito delle persecuzioni si riversarono nelle città europee grandi quantità di Ebrei in fuga dall’Impero zarista. Erano Ebrei poverissimi, vestiti in abiti tradizionali, che dormivano per le strade e chiedevano l’elemosina, mettendo in grave imbarazzo gli Ebrei borghesi e intellettuali delle capitali occidentali, che avevano ormai trovato una loro identità e sicurezza, che ora vedevano traballare.

In questa situazione si attivò Theodor Herzl, giornalista di successo e noto intellettuale a Vienna, completamente secolarizzato, lontanissimo dall’ebraismo tradizionale, che teorizzava e propugnava la necessità di un Risorgimento ebraico che portasse gli Ebrei ad avere l’indipendenza in un proprio angolo di terra. È il sionismo, che aggiunge un ulteriore elemento di dubbio e di cambiamento nello scenario già molto complicato dell’identità degli Ebrei d’Europa. Il poliedro dell’identità ebraica a cavallo tra Ottocento e Novecento diventa definibile con tantissime diverse sfaccettature, anche all’interno degli stessi nuclei familiari. Le classi dirigenti delle Comunità vengono squassate da conflitti politici.

Il conflitto di identità provocò un processo di riassestamento anche in Italia, soprattutto nella comunità triestina. Furono drammi personali sconvolgenti, che divisero la storia ebraica almeno fino alla Prima guerra mondiale, l’altro grande avvenimento che rivoluzionò tutti i discorsi, mettendo in crisi sia gli Stati nazionali liberaldemocratici sia gli Imperi liberali, mentre nasceva il nuovo impero comunista in Russia. Gli Ebrei si divisero ulteriormente, fin dalla scelta a favore o contro l’intervento. Gli Ebrei irredentisti che emotivamente tendevano a essere interventisti – soprattutto a Trieste − erano tuttavia lacerati dall’idea di trovarsi a sparare contro fratelli ebrei austriaci nella trincea opposta.

Tuttavia la partecipazione degli Ebrei italiani alla guerra fu intensa, come testimoniano i tantissimi caduti ebrei.

La Prima guerra mondiale cancellò quasi totalmente lo scenario precedente in Europa, anche per gli Ebrei. Nell’arco di dieci anni dalla fine della guerra, in Russia Germania Italia e poi anche in Spagna si svilupparono e presero il potere partiti antidemocratici e antiliberali. Le democrazie che avevano formalmente vinto la Grande guerra si ritrovarono in una profonda crisi economica che travolse le istituzioni liberali là dove erano più fragili, più recenti, meno radicate.

Nel frattempo il sionismo si era trasformato da un’impresa umanitaria per soccorrere i profughi in un’impresa politica e sociale di ricostruzione di uno stato ebraico nella terra d’origine degli Ebrei, dopo l’autorizzazione dell’Inghilterra a creare un ‘focolare ebraico’ in Palestina, come recita la dichiarazione Balfour del 1917. All’interno delle comunità ebraiche occidentali non poche famiglie si spaccarono sull’adesione o sul rifiuto del sionismo, che divenne questione importante per la definizione della propria identità da parte degli Ebrei stessi.

Tutte le società europee vissero nel primo dopoguerra una fase di profonda divisione politica fra socialisti e liberali, con conseguenti grandi tensioni sociali, manifestazioni, scioperi. I governi democratici non riuscirono a dare stabilità alla politica, cambiarono ogni pochi mesi senza riuscire a prendere decisioni efficaci, sia in Italia sia in Germania.

In questa situazione di instabilità, tensione e divisioni politiche accanite la presa del potere da parte di Mussolini, che si presentava come socialista e nel contempo come patriota nazionalista, venne accolta con favore dalla stragrande maggioranza della popolazione, inclusa la maggioranza delle comunità ebraiche. Furono pochi anche fra gli Ebrei coloro che capirono subito l’inciviltà giuridica della dottrina fascista e ne previdero lucidamente l’involuzione. I fratelli Rosselli ed altri antifascisti ebrei della prima ora si opposero al fascismo non in quanto Ebrei, ma in nome dei principi liberali propugnati da giuristi e intellettuali quali Benedetto Croce. Lo stesso Mussolini nei primi anni non assunse posizioni antiebraiche. La maggioranza degli Ebrei italiani visse perciò nell’illusione della sicurezza e del godimento pieno dei diritti di cittadinanza fin verso la metà degli anni ’30, quando iniziò la campagna da parte dei giornalisti e degli intellettuali obbedienti al regime, cioè da parte dell’intero mondo intellettuale italiano, salvo le pochissime eccezioni degli oppositori della prima ora, ormai in esilio o in disgrazia.

Questa fu la tragedia dell’Ebraismo italiano: venne travolto dalla propaganda e poi dalle leggi razziste del 1938, consapevole di essere stato compartecipe di questa storia, senza capirla e senza prevederne l’esito.

 

 

 

Bibliografia

Anna Foa, Diaspora. Storia degli ebrei nel Novecento, Laterza, Roma-Bari 2018

Norman Solomon, Ebraismo, Einaudi, Torino 2008

Piero Stefani, Gli ebrei, il Mulino, Bologna 2006

Gadi Luzzatto Voghera, Antisemitismo, Editrice Bibliografica, Milano 2018

Gadi Luzzatto Voghera, Il prezzo dell’eguaglianza. Il dibattito sull'emancipazione degli ebrei in Italia (1781-1848), Franco Angeli, Milano, 2000

Marina Caffiero, Storia degli ebrei nell'Italia moderna. Dal Rinascimento alla Restaurazione, Carocci, Roma 2014

 

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