Legge, retorica e realtà

14/10/2021

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La storia di Mimmo Lucano e la sua condanna a tredici anni mette clamorosamente in luce una realtà pericolosa: le nostre regole e le nostre leggi non sono più adeguate ad affrontare e gestire nuovi aspetti del mondo reale. Lucano ha reagito con creatività e con coraggio – da imprenditore più che da amministratore pubblico – per cercar di risolvere un problema reale urgente che si presentava sul territorio da lui amministrato, è stato per questo molto ammirato, ma poi è stato condannato per aver infranto regole e leggi dello stato nei suoi tentativi di soluzione.

Questo distacco fra mondo reale e mondo legale è un problema gravissimo per qualunque società, perché la porta al crollo interno con velocità crescente. Non abbiamo tempo per gli indugi. Non ho nessuna proposta ‘sicura’ da avanzare, ma occorrerà trovarne qualcuna in tempi rapidi. A me oggi preme ricordare alcuni aspetti della realtà che non possiamo trascurare né per elaborare politiche per l’esterno, né per adeguare i regolamenti interni.

Noi Italiani viviamo protesi nel Mediterraneo, siamo collegati al Continente attraverso pochi e stretti valichi terrestri. Se non controlliamo il mare siamo alla mercé di chiunque voglia entrare nel nostro territorio, qualunque sia la sua intenzione o la sua necessità, perché non possiamo creare muri o barriere sul mare, come quelli che si stanno moltiplicando anche in Europa lungo i confini di terra.

La miglior forma di controllo del mare sul lungo periodo è il perseguimento di una strategia che ostacoli:

-          sia la creazione di stati potenti e aggressivi sulle altre sponde del Mediterraneo, che un giorno potrebbero volerci sottomettere;

-          sia il crollo delle istituzioni in quegli stessi stati costieri, con conseguente destabilizzazione delle società, guerre civili e fughe di popolazioni in cerca di salvezza.

La strategia si persegue con interventi tattici costanti, indefatigabili, che proseguono attraverso i decenni e i secoli: contatti e contratti economici e culturali, creazione di alleanze tattiche variabili, politiche concordate per l’immigrazione e l’emigrazione. Da circa venti anni abbiamo dimenticato di continuare ad agire su tutti i fronti per perseguire la nostra strategia sul Mediterraneo, prima perché ci siamo crogiolati in sogni di affidamento al potere (inesistente in realtà) dell’Unione Europea, oltre che a quello della NATO, poi perché distratti o impediti dalle crisi economiche e politiche succedutesi dal 2008 in poi, prima in Occidente, poi in tutto il mondo arabo. Ora il ritiro degli USA dall’Asia Centrale e dal Medio Oriente (preannunciato sin dal 2009) ci ha posti davanti alla drammatica realtà del non poter più contare neppure sulla protezione della NATO. Fino a venti anni fa pensavamo che gli interessi degli USA combaciassero con i nostri nella difesa del Mediterraneo, perciò potevamo non preoccuparci; ora sappiamo che non è necessariamente così, perché il Mediterraneo presenta un interesse secondario per gli USA e per la NATO, e inoltre nella NATO oggi hanno maggior peso la Turchia o la Polonia rispetto all’Italia.

Possiamo contare sulla solidarietà europea per riprendere il controllo del Mar Nostrum e promuovere la pace e l’equilibrio di potere sulle sue sponde? A parole forse sì, nei fatti dobbiamo organizzarci di nostra iniziativa. La priorità dell’Unione Europea (in cui la Germania ha il massimo peso economico e politico) oggi è la gestione dei rapporti con i paesi dell’Est europeo e dei Balcani. Alla gestione della sicurezza del Mediterraneo è bene che pensiamo noi, così come già ci stanno pensando Francia e Grecia, che hanno stretto fra di loro non soltanto accordi di collaborazione militare, ma anche un accordo di mutuo intervento in caso di attacco, al di fuori delle possibili decisioni della NATO o dell’Unione Europea. Forse per noi sarebbe conveniente seguire Francia e Grecia? Forse no, ma occorre almeno sviluppare il discorso, ragionarci su.

Su Limes di agosto molti articoli affrontano questo discorso. Voglio citare qualche frase dall’articolo di Dario Fabbri, dal titolo Perché l’Italia non imparerà la lezione afghana:

-          ‘Incapaci di elaborare una strategia, cediamo alla moralistica, alle fantasie sull’esercito europeo’;

-          ‘l’esercito europeo non nascerà mai. Non solo per l’assenza di un governo comunitario (...)’;

-          ‘Il progetto resterà sulla carta perché, sebbene scambiata per un videogame, la guerra comporta la morte dei belligeranti, massimo sacrificio che i membri di una collettività accettano di sostenere soltanto per sentimento, per ancestrale legame verso gli altri concittadini, non per asettica decisione di alcune (temporanee) élite, animate da afflato ecumenico soltanto in condizioni di bel tempo’;

-          ‘In Europa non si rintracciano cittadini di una specifica nazione disposti a morire per gli altri. Non un finlandese per uno spagnolo, non un tedesco per un greco, né un belga per un romeno. Amarsi in Erasmus è assai diverso dal crepare in battaglia per altre collettività, pure se inserite in un quadro burocratico comune';

-          ‘In un conflitto di terra, è per lo meno improbabile immaginare i commilitoni comunicare fra di loro in un inglese abbozzato, peraltro lingua ormai estranea all’Unione Europea (….)’;

-          ‘Al di là di oniriche meditazioni, un esercito continentale significherebbe il predominio di una specifica nazione o di alcune nazioni sulle altre. Non esistono interessi comuni tra i vari paesi che compongono l’Unione, divisi per confliggenti inclinazioni verso Stati Uniti, Russia o Cina’.

Si può essere d’accordo oppure no, ma Diego Fabbri ha lanciato il suo sasso nello stagno. Non mi risulta che sia riuscito a smuovere le acque stagnanti del pensiero politico e strategico italiano, e questa è già di per sé una sciagura. 

 

Laura Camis de Fonseca

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