1938: i bambini e le leggi razziali in Italia
Alcune testimoninaze

11/03/2015

Testimonianze tratte da 1938: i bambini e le leggi razziali in Italia, a cura di Bruno Maida, Giuntina, Firenze, 1999.

 

Bruna Levi Schneider, triestina, il 5 settembre 1938 ha17 anni e torna con la famiglia da un soggiorno montano.

«Quando arrivano alla prima stazione importante, probabilmente Verona, si sentono gli strilloni leggere a gran voce e… con vivo entusiasmo, i titoli a caratteri cubitali dei quotidiani; i genitori della ragazza comprano il primo giornale che passa sotto il finestrino; è “Il Resto del Carlino”; vi leggono: “alle scuole italiane di qualsiasi ordine e grado non potranno essere iscritti alunni di razza ebraica”. I genitori, muti, impallidiscono. Ma volete sapere quella che fu veramente la reazione così, a caldo, di quella ragazza? Fu quella che forse sarebbe stata la vostra: esclamò: “Che bellezza, non dovrò più andare a scuola!!!”. Dagli sguardi dei genitori la ragazza capisce di avere forse detto la cosa sbagliata al momento sbagliato. E tacque».

«Passano i giorni. La ragazza è molto, molto meno felice: il mondo è tutto cambiato, per gli ebrei, è capovolto, gira alla rovescia e non capisci perché: nessuno ti telefona; le amiche, gli amici che incontri per la strada, quasi tutti, tirano dritto, senza salutarti: non è che girino la testa, no, solo proprio non ti vedono, come se tu fossi trasparente, di vetro; forse sono imbarazzati, forse, prudentemente, si adeguano. Altri, gli adulti, ti abbracciano, come se avessi subito un lutto recente; ti dicono che… sì… veramente… gli ebrei… qualche volta… ma tu, nooo, tu sei diversa, sei quasi come noi… sei brava… beh coraggio… ci rivedremo prestissimo… e prestissimo si allontanano… e non li rivedi mai più!».

«Passano i giorni, iniziano le scuole e tu ragazza ebrea, rimani a casa. Non puoi nemmeno ascoltare la radio: è proibito agli ebrei possedere una radio. Puoi invece aiutare la mamma in qualche lavoro domestico, noioso e certo non gratificante: bisogna però aiutare la mamma perché è proibito agli ebrei avere delle colf normali, cioè ariane. Puoi leggere i giornali: ma essi straripano di sempre nuovi decreti contro gli ebrei, di storielle oscene contro gli ebrei, di frasi da turpiloquio contro gli ebrei, di vignette umoristiche contro gli ebrei, che ti strappano le lacrime. […] Sei disperata, umiliata, non parli più con nessuno, giri a vuoto per casa, senza far nulla, perché non hai nulla da fare, nulla di costruttivo per il tuo futuro. […] Sei infelice perché scuola per te come per tutti, oggi come ieri e come domani, vuol dire anche centro di aggregazione, lavoro organizzato, risate, compagnia, appuntamenti per il pomeriggio… vita! […] Vedete erano piccole cose. Non era la morte (non ancora) ma ti colpivano a morte perché ti marcavano con un’infamia che non potevi capire!»

Che cosa si insegnava nelle scuole dopo il ’38? Ecco un brano di un discorso di Roberto Farinacci trasmesso il 23 gennaio 1940 agli studenti nell’ambito del ‘Programma nazionale Conversazioni per la scuola media’:

« […] gli uomini e le razze non godono, né possono, né devono godere tutti gli stessi diritti anche perché i diritti non si presumono mai per nessuno nel dramma divino della storia come pretendono gli scrittori giudei e giudaizzanti perché anzi tutti i diritti, il diritto di vivere non escluso sono una faticosa conquista e una espressione di valori dimostrati obiettivamente nella storia».

 

Donatella Levi: la psicanalisi e il trauma dei sopravvissuti.

«Sono nata a Verona nel 1939 da una famiglia ebrea e dopo sessant’anni provo ancora un sentimento di apprensione ad ogni raccomandata con ricevuta di ritorno, ansia ad ogni seppur minimo richiamo del ministero delle Finanze, pago con uno scrupolo ossessivo le tasse e tremo quando, raramente, mi è toccato mostrare la mia patente agli agenti di polizia. Uso il mio cognome con una specie di parsimonia, come se dovessi soppesare un po’ la situazione prima di presentarmi. Un frammento di tempo della mia biografia si è condensato in una specie di vortice sempre presente tra altri vortici di tempi. Non è solo quella parte d’infanzia che resta in tutti, ma riconosco in me la permanenza e l’inerzia di alcuni strati del tempo, tanto da modificarne le apparenti linearità della biografia, e rendere sempre attivo e attuale il pericolo di esistere, di chiamarsi in un certo modo, di non sapere con certezza di avere dei diritti. Potremmo definire tutto questo una sindrome d’ansia post-traumatica, non nomino altri stati d’animo, sogni ricorrenti, paure di abbandono e di perdita per non dilungarmi in una autobiografia della nevrosi che per anni ho vissuto come solamente individuale. Le leggi razziali del 1938 in me hanno prodotto tutto ciò».

« […] gli ebrei italiani si trovarono in uno stato ancor più confuso di quelli di altri paesi ed ebbero una grande difficoltà a utilizzare i meccanismi generazionali precedenti, anche perché il potere che promulgava le leggi razziali non si presentava come un monolite, come nel caso dei nazisti; il fascismo aveva comportamenti molto contraddittori e fuorvianti. Molti avevano aderito al partito, molti vi avevano creduto, molti avevano combattuto per la patria nella prima guerra mondiale, molti erano laici e davanti a questo attacco che andava a minare ogni sicurezza furono travolti dal desiderio di negare. Nella negazione “la funzione intellettuale si scinde dal processo affettivo”.

Percentualmente pochi si suicidarono, alcuni cercarono immediatamente l’espatrio, altri aspettarono, sperando nella capacità italiana di cambiare parere. Sembrò ad alcuni che il nemico fosse fuori dai confini, ragionando come si fa con gli adolescenti che si pensano sempre traviati dalle cattive compagnie. Il meccanismo di difesa messo in moto in questo caso, immaginando che il nemico fosse straniero e lontano, era la proiezione, perché nonostante l’evidenza per alcuni era impensabile che il proprio amico, il proprio collega, il proprio cliente, il vicino di casa, fossero nemici. Proprio questo meccanismo di difesa, così arcaico col suo desiderio di salvare l’oggetto amato, impedì di vedere e percepire nel qui ed ora ciò che stava per accadere.

Ai bambini, a cui non viene mai insegnata, se non in situazioni altamente patologiche, la diffidenza, fu fatta fare una brusca retromarcia dalla fiducia: nel compagno di scuola, nei maestri e negli amici dovevano cominciare a vedere il nemico, il persecutore e soprattutto tacere. Tutta l’ottica veniva capovolta inaspettatamente, dove prima vi era la sicurezza vi era un pericolo imminente. Dalle leggi razziali in poi era impossibile aver fiducia in uno Stato, in una qualsiasi istituzione pur desiderando di farvi parte e così venivano a cadere tutti i principi su cui basare un’educazione; l’unica possibilità era rinchiudersi difensivamente nel nucleo familiare, divenuto anch’esso luogo d’insicuro rifugio, precaria appartenenza in cui solo i legami di sangue potevano continuare a fare da riferimento, in una regressione «pre-polis» che non poteva che distorcere lo sviluppo della personalità dei più piccoli e degli adolescenti. Tutti dipendevano per la propria educazione, mantenimento e crescita da coloro che erano il principio dei guai. I nomi paterni e materni erano fonte di pericolo e di discriminazione e, nello stesso tempo, coloro che li portavano erano angosciati e spaventati alla ricerca di una via di salvezza».

«In tutti i casi, il bisogno di scoprire, rimettere in scena, o vivere il passato dei genitori era un nodo cruciale nella vita dei figli dei sopravvissuti. Questo bisogno non ha niente a che fare con la solita curiosità dei figli a proposito dei genitori. Questi bambini sentono di avere una missione: vivere nel passato e cambiarlo in modo che l’umiliazione, l’ignominia e il senso di colpa dei loro genitori possano trasformarsi in una vittoria sugli oppressori, e la minaccia di un genocidio possa essere sventata restituendo vita e dignità alle vittime».

 

Sonia Brunetti: Vietato parlare francese in casa!

«Mia mamma era francese, la nonna di Vittoria era francese e noi in casa parlavamo italiano e francese, difatti è una lingua che io conosco bene. Quando avevo cinque o sei anni, io parlavo entrambe le lingue, una come l’altra indifferentemente. Allora mia mamma è stata chiamata in Questura e le hanno detto che se continuava a parlare in francese a me e a mio fratello faceva quello che si dice del «disfattismo», cioè faceva della propaganda antifascista, antistatale, perché noi eravamo in guerra con la Francia».

 

Giovanni Finzi Contini: Scappare!

«E il trauma è stato nel ’43, dopo l’8 settembre, dopo il 16 ottobre. A quel punto si capì, si sentì che c’era qualche cosa; anch’io lo sentii, anche se piccolo, evidentemente nel ’43 io avevo 9 anni… e scappammo, scappammo tutti nella campagne intorno. In quel momento nella villa c’eravamo noi, io, mio patrigno, mia mamma e la mia sorellina,e poi c’erano 8 dei nostri tra zii e cugini parte di Roma e parte di Pisa, alcuni anziani, alcuni più giovani, una donna malata; e noi andammo lontano. Mi ricordo questo viaggio nella macchia, su in montagna, questi mesi passati in questa casupola, questi bambini sporchi. C’era l’acetilene, c’era il prete a letto perché avevamo freddo, io che scrivevo qualche compito che mi correggeva la mamma, e poi uno zio stava in un altro podere, un pochino più in là, un’amica stava da un’altra parte quindi ci facevamo queste… ci andavamo a salutare uno con l’altro sempre, senza sapere… non dovevamo sapere l’uno dell’altro. E così abbiamo passato alcuni dei mesi invernali negli anni tra il ’43 e il ’44. Poi verso la primavera, adesso non ricordo esattamente quando, dissero che era passato il pericolo, e ci riavvicinammo alla villa. E senza entrare nella villa proprio ma nelle vicinanze, e i miei parenti più anziani andarono proprio vicino, nella casa del fattore. Io e la mia famiglia andammo un pochino più lontano, diciamo un quarto d’ora, dieci, venti minuti di distanza in un altro podere.

Devo dire che in questo periodo tutte le persone che ci avevano circondato ci hanno aiutato molto e ci hanno accolto, ci hanno aperto le loro case e non abbiamo sentito l’isolamento.

Arriva la Pasqua del ’44: dissero che ci si poteva rivedere; lasciammo passare la Pasqua, il girono dopo Pasqua, o la settimana dopo Pasqua. Non ricordo, era intorno al 15 aprile 1944, ci ritroviamo tutti: noi venuti da più lontano e tutti questi miei zii e cugini che erano rimasti in quel periodo; ci ritroviamo a casa del fattore a festeggiare il trovarci insieme. Passiamo una bella giornata, torniamo a casa, ognuno nelle proprie case. Passa la notte; la mattina presto, si sente che arriva qualcuno, mi svegliano presto, di soprassalto, sento parlare concitato: «Scappiamo! Scappiamo! Arrivano le SS!» E noi prendiamo le poche cose, e scappiamo immediatamente: io, mia mamma, mio papà e mia sorellina, e la fida nostra donna di servizio che ci ha sempre seguito in tutte queste vicissitudini. Scappiamo, scappiamo, andiamo nella macchia, lì intorno. “Scappate hanno preso tutti quanti, sono andati nella villa e hanno preso tutti gli zii, tutti i cugini”.

Siamo scappati. Le mie zie sono state portate via, 8 parenti che non sono più tornati. Noi siamo scappati, siamo stati aiutati da diverse persone e siamo scappati per le campagne, e nascosti ora qua, ora là, dopo qualche giorno ci hanno mandato in un podere lontano lontano, con un viaggio su un carro di buoi con tutte queste nostre masserizie. Siamo rimasti lì parecchi giorni – forse un mese- e lì tramite conoscenze abbiamo saputo che c’erano dei canali per scappare in Svizzera».

 

Elena Ottolenghi. La solidarietà.

«Abbiamo avuto persone che ci hanno aiutato in modo straordinario, e un monumento dovrebbe essere fatto, un romanzo dovrebbe essere scritto, a quelle che erano le nostre donne di servizio. Anche noi avevamo avuto una donna che poi era stata mandata via nel ’38 perché era proibito avere donne di servizio non ebree, e che è stato il nostro angelo custode per tutti gli anni seguenti. Noi siamo stati nascosti nella cascina dei suoi fratelli… Anche noi avevamo le carte false, credevamo di essere al riparo, credevamo che tutti i contadini delle cascine intorno pensassero che eravamo degli sfollati per i bombardamenti su Torino, e alla liberazione abbiamo saputo che tutti sapevamo che eravamo ebrei, che nessuno aveva parlato nonostante che ci fossero i repubblichini sulla porta della caserma del paese, nonostante che il nostro padrone di casa tutti i sabati sera si andasse a ubriacare – ma proprio ubriacare fradicio! – nell’osteria del paese. Tornava a casa e dovevamo andarlo a raccogliere nei fossi perché cadeva tanto era ubriaco, ma non ha mai parlato. E quando tornava ci faceva dei discorsi così, da ubriaco, perciò diceva delle parole senza senso, ma diceva sempre questa frase: «La disciplina dell’amicizia». E noi ridevamo, perché non capivamo mica cosa voleva dire, ridevamo! Invece lui voleva dire che non aveva parlato perché c’era l’amicizia. E queste persone che ci hanno accolto in casa loro all’inizio molto diffidenti, noi gente di città, mah… e poi siamo diventati parte della loro famiglia (come siamo tuttora)… Ecco, questo sono le persone che vanno ricordate e che noi abbiamo ricordato proprio fra i giusti, quelli che salvano delle vite».

 

Lia Levi: adesso se ne deve parlare.

«Queste generazioni nuove non possono dare e non danno condizionamenti. Adesso diciamo alle classi di studenti che noi incontriamo: la generazione precedente non l’abbiamo incontrata perché erano figli di persone che in qualche modo erano coinvolte, chi contro, chi pro, chi col rimorso di non aver fatto niente. Erano comunque ancora dentro agli avvenimenti. Adesso ci siete voi, le nuove generazioni, i nostri nipoti quando cresceranno, per cui il racconto è già lontano. Ecco perché bisogna costruire una memoria che non sia solo fatta di parole, perché se no non serve a niente; non parole che passano sopra la testa, di concetti, di concetti storici, ma cercare di trasmettere le emozioni. Perché? Perché con le emozioni uno è coinvolto. Come puoi diventare sensibile alla sofferenza, non so, di un immigrato che adesso è qui, se non sei coinvolto e non hai capito la sofferenza dell’emarginato di allora? Ecco come ci ricolleghiamo all’oggi».

 

 

 

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