Rodrik: la globalizzazione attuale ha abbandonato le passate politiche di successo

25/07/2017

Contrariamente a quanto si tende a credere, l’attuale fase di globalizzazione costituisce una chiara frattura con la tradizione politica ed economica occidentale, che ci ha dato benessere e progresso sociale. Questa nuova fase è iniziata con le deregulation degli anni ’80, caratterizzati dalle ‘rivoluzioni’ operate da Reagan e Thatcher. La libertà di mercato predomina da allora nella politica dell’Occidente e ha prodotto la dottrina che è stata definita in vari modi: “Washington Consensus”, fondamentalismo di mercato oppure neoliberalismo. Qualunque sia l’appellativo prescelto, si trattava di una combinazione di ottimismo eccessivo circa i risultati che i mercati possono ottenere senza interventi politici e pessimismo circa le capacità dei governi. In questa visione i governi ostacolano i mercati invece di essere indispensabili al loro buon funzionamento e, conseguentemente, la portata dei loro interventi deve essere ridotta al minimo.

Lo sviluppo globale dei commerci e delle industrie nelle fasi precedenti era stato basato su modelli in cui il ruolo dei governi era invece fondamentale. Nei primi trent’anni successivi al 1945 − che Rodrik definisce ‘secondo modello di capitalismo-globalizzazione’ − l’economia fu regolata dagli accordi di Bretton Woods, così chiamati dall’omonima località del New Hampshire in cui Americani, Inglesi e rappresentanti dei paesi alleati s’incontrarono nel 1944 per definire l’architettura istituzionale che avrebbe costituito l’infrastruttura economica delle relazioni internazionali dopo la fine della guerra e indirettamente anche quella politica, data la natura delle istituzioni create, a forte protagonismo governativo. Gli accordi portarono alla creazione del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale (originariamente Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo) e all’utilizzo del dollaro come moneta di riferimento per gli scambi internazionali.

Questa seconda fase di globalizzazione si ispirò alle tesi di John Maynard Keynes, l’economista britannico autore della“Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta”. Il sistema keynesiano è a economia mista, persegue l’equilibrio fra il libero mercato e il controllo pubblico dell’economia. Vennero eliminate le restrizioni peggiori ai flussi commerciali, ma fu lasciata ai governi piena libertà di attuare in maniera indipendente le loro politiche economiche e di costruire i modelli preferiti di stato sociale. Ai paesi in via di sviluppo fu consentito di perseguire le proprie particolari strategie di crescita e di essere vincolati al rispetto di relativamente poche norme internazionali. I flussi internazionali di capitali rimasero circoscritti

Negli anni ’80 e ’90 stabilizzare, privatizzare, liberalizzare divennero i tre imperativi economici. Ne derivò l’“iperglobalizzazione”: furono aboliti i controlli sui mercati dei capitali internazionali e le nazioni in via di sviluppo subirono pressioni perché aprissero i loro mercati al commercio internazionale e agli investimenti. La globalizzazione economica diventò fine a se stessa

Il compromesso di Bretton Woods si rivelò un successo strepitoso: i paesi industrializzati si avviarono a una ripresa che li condusse alla prosperità, la maggior parte delle nazioni in via di sviluppo conobbero livelli di crescita economica mai registrati in passato. L’economia mondiale conobbe uno sviluppo inimmaginabile. Tuttavia il successo del regime di Bretton Woods conteneva in sé i semi del suo scardinamento. Man mano che il commercio e la finanza internazionale si espandevano, lo spazio della politica economica, reso possibile dall’esistenza di controlli e limitazioni, si restringeva, mentre i vincoli verso l’estero assumevano un ruolo di sempre maggiore importanza, anche grazie alla creazione di numerosi organismi burocratici sovranazionali che sorvegliano l’applicazione puntigliosa di regolamenti minuziosi da parte dei singoli stati.

Il sistema di pensiero alla base dei controlli sui movimenti di capitale si disgregò negli anni ’70, sostituito nei decenni successivi da una visione che sottolineava l’ineluttabilità della liberalizzazione e la certezza dei benefici derivanti dalla mobilità di capitali.

Il regime di Bretton Woods venne quindi rimpiazzato negli anni Ottanta e Novanta da un programma ambizioso di liberalizzazione dell’economia e di integrazione in profondità delle economie globali, sulla base del Washington Consensus. Quest’ultimo, più che un vero e proprio “sistema”, fu un insieme di indicazioni, un “mantra” per i governi che decisero di seguirlo: “stabilizzare, privatizzare, liberalizzareerano i tre imperativi sui quali si basava la nuova ossessione degli economisti.

Da questo insieme di pratiche deriva l’assetto politico-economico (e quindi sociale) che Dani Rodrik chiama “iperglobalizzazione”. Gli accordi commerciali internazionali si estesero ben oltre la sfera tradizionale e interferirono con le politiche nazionali; furono così aboliti i controlli sui mercati dei capitali internazionali e le nazioni in via di sviluppo subirono forti pressioni perché aprissero i loro mercati al commercio internazionale e agli investimenti.

Così, dice Rodrik, la globalizzazione economica diventò fine a se stessa. Nel superare i limiti del modello di globalizzazione del dopoguerra, gli economisti e i responsabili politici trascurarono di considerare quale era il segreto del successo originario. La conseguenza fu una serie di continue delusioni. La globalizzazione finanziaria diffuse instabilità più che favorire maggiori investimenti e una crescita più rapida. Nell’ambito di ciascun paese la globalizzazione generò disuguaglianze e insicurezza invece di favorire il progresso economico di tutti. Si registrarono alcuni successi straordinari, specialmente da parte di Cina e di India. Ma questi erano paesi che partecipavano al gioco della globalizzazione non attraverso l’applicazione della deregulation, bensì applicando il compromesso di Bretton Woods. Invece di aprirsi incondizionatamente al commercio e alla finanza internazionale, tali paesi perseguivano strategie eterogenee e si avvalevano di una consistente dose di interventi dello stato al fine di diversificare le loro economie.

Nel frattempo i paesi che seguivano ancora vecchie formule di mercantilismo, come nella prima fase di globalizzazione, si trovarono sempre più invischiate nella ‘trappola delle commodities’ e perdevano vigore. È il caso dell’America latina.

 

 

A cura di Ilaria Canzani

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