In lode di George Friedman

08/05/2021

Mi sono imbattuta nelle analisi di Friedman nel 2006, a seguito di un suo intervento in un seminario di geopolitica della John Hopkins University. Non era il solito intervento di taglio accademico, ma la riflessione di un pensatore politico con profonda conoscenza della storia e radicato nella realtà. Volevo saperne di più, volevo trovare i libri che aveva scritto. Venni a sapere che George è figlio di ebrei ungheresi sopravvissuti alla Shoah, i quali nel 1957 si rifugiarono negli USA con il figlio, che aveva otto anni. Ricordo bene l’arrivo di due rifugiati ungheresi, due fratelli, nella mia scuola, la East High School di Rockford, Illinois, in quello stesso gennaio 1957: li invitai subito al Foreign relations club che la scuola aveva fatto fondare a me e all’argentino Luis pochi mesi prima, in quanto primi foreign exchange students che la scuola accoglieva. Ma i due giovani, magrissimi e spauriti, appena arrivati da una Budapest nelle cui strade vigilavano i carri armati sovietici, erano troppo sgomenti, non volevano parlare né di sé né dell’Ungheria.

George Friedman ha lavorato come analista e consulente per il Pentagono e per lo staff di più Presidenti americani, per poi fondare dapprima Strategic Forecasting (poi venduta), quindi Geopolitical futures. Le sue riflessioni, le sue analisi, il suo metodo nell’esaminare le questioni politiche e storiche e gli avvenimenti contemporanei mi aiutavano a dare finalmente alcune risposte alle domande che mi ero posta nei miei decenni di lavoro in tanti paesi diversi del mondo, di cui avevo vissuto tangenzialmente l’evoluzione politica economica e sociale. Fu la scoperta delle analisi di Friedman a convincermi a creare la Fondazione: avrei avuto un campo di indagine sufficientemente ampio, in cui provare a coinvolgere lettori e studenti, anche al di là dallo studio della singolarità ebraica nella storia, argomento che già mi appassionava, e dei grandi saggi di Big History che già avevano un successo globale, da Jared Diamond a Francis Fukuyama.

Molte delle newsletters della Fondazione debbono a Friedman i contenuti più interessanti. Dopo il 2010 mi accorsi che alcuni corrispondenti italiani negli USA l’avevano ‘scoperto’ perché alcuni loro articoli prendevano spunto dalle sue riflessioni e adottavano il suo metodo. Più tardi qualche suo articolo fu tradotto e pubblicato occasionalmente da Limes. A inizio 2021 Limes ha inaugurato la rubrica Incanto geopolitico, in cui pubblica soltanto articoli di Friedman. Non perdetevi l’ultimo di questi articoli, dal titolo La natura delle nazioni, di cui vi trascrivo la frase chiave: “La differenza fra il patto di sangue ungherese e il giuramento dei militari americani è fondamentale. Il primo è un impegno verso l’unità del popolo; il secondo è un impegno di lealtà alla costituzione, se necessario anche contro il popolo. Il sangue ha unito i magiari. Gli americani sono stati uniti dalle istituzioni e dai loro principi.”

Sono molto contenta che si apra spazio in Italia all’approccio geostorico e geopolitico di Friedman agli eventi. Ora la Fondazione può finalmente consigliare buone letture dai giornali italiani, dagli articoli di Federico Rampini ai pensieri di George Friedman tradotti per Limes.

Voglio sottoporvi alcuni paragrafi dell’articolo che George Friedman ha mandato ai sottoscrittori di Geopolitical Futures il 30 aprile 2021, per darvi l’idea di come la minuziosa concretezza dell’osservazione si unisca alla profondità delle riflessioni, anche a partire da un’inezia quotidiana. L’articolo di oggi racconta dell’aver dovuto cambiar telefono. Che cosa avreste scritto voi su questa esperienza, che sicuramente tutti abbiamo fatto? Leggete che cosa ne ricava Friedman.

 

Laura Camis de Fonseca

La Apple e il passato

Pochi giorni fa il mio telefono, un iPhone 6 di dieci anni fa, è morto. Ha continuato a funzionare come telefono, ma ha cessato di fare alcune altre cose, ad esempio darmi accesso al conto in banca. Pare che la banca abbia rilasciato una nuova versione della sua App, che non posso usare sul mio antico modello 6, e abbia disabilitato la vecchia versione. Con disdegnosa arroganza la banca non vuole più aver a che fare con un telefono che è stato presente a troppe riunioni di lavoro e a troppe feste in famiglia.

[…] Per poter fare un acquisto allo Apple Store occorre la prenotazione. La giustificazione ufficiale è prevenire la diffusione del Covid, ma sospetto che il vero scopo sia mettere alla prova quanto una persona sia degna di ottenere un prodotto Apple. L’appuntamento l’aveva preso mia moglie. Arrivammo per tempo. C’era una coda governata dalle leggi di natura e del distanziamento sociale. Ci misurarono la temperatura e lentamente strisciammo lungo una serie di file diverse, senza una logica apparente. Finalmente un uomo davanti a uno schermo disse ‘Friedman’ e noi avanzammo fin quasi al negozio, ma non proprio: dovevamo essere accompagnati da un altro addetto. Mia moglie venne con me perché secondo lei una venditrice in gonnella mi potrebbe rifilare qualunque cosa. Non è vero, ma è irrilevante. Il venditore era un uomo.

Mi parve chiaro che lì tutta la questione era: sei davvero degno di un prodotto Apple? Hai le qualità necessarie? Nessuna possibilità di guardarsi attorno, di valutare, di sollevare o aprire confezioni intoccabili: il cliente è sotto sorveglianza continua. Vi assicuro che al Pentagono l’atmosfera è molto più rilassata. Mi chiesi come faceva la Apple a mantenere i clienti trattandoli come supplici.

Ora so perché Apple ha successo. Ero affezionato al mio iPhone 6 perché faceva il suo dovere. Non si rompeva neppure cadendo, si faceva trovare con un suono personalizzato chiamandolo da un altro telefono ogni volta che non riuscivo a trovarlo (più volte al giorno). Aveva il telefono, le mail, gli SMS (che detesto), e una macchina fotografica inutile ma che non dava fastidio. Lasciava una finestra a disposizione del servizio di previsioni meteo. Insomma, faceva tutto quello che mi serviva, anche di più. Soprattutto stava comodamente nella tasca dei pantaloni, quando non lo perdevo. Detestavo l’idea di star per comprare un megalite per videogame, collegato a Netflix, utilizzabile per fare eco cardiogrammi e anche per ridar voce ai morti. Ma ecco la vera genialità di Apple. Ho consegnato il mio vecchio telefono al venditore sospirando ‘è morto’. Mi ha detto in tono funereo che gli dispiaceva e mi ha chiesto che cosa volevo. ‘Uno uguale’ ho detto, ‘esattamente uguale’. ‘Di che colore?’ ‘Nero’, ho detto stupito (di che altro colore dovrebbe essere un telefono?). Mi ha consegnato il mio telefono, un iPhone 8, lucido e nuovo, identico all’altro anche dopo l’accensione. Dentro era diverso − e mi ha elencato i vantaggi − ma l’unico vantaggio per me era che non avrei dovuto imparare nulla di nuovo.

Proprio come Ford. Uno dei suoi colpi di genio fu inventare i distributori privati che, sparsi in tutto il paese, vendevano e riparavano costantemente i suoi veicoli, anche vecchi. Il genio di Apple è che non si infatua delle novità, di strumenti per fare cose nuove in nuovi modi. È attenta all’evoluzione delle cose, non alla loro distruzione, pur quando si tratti di distruzione creativa. Trova nuovi modi per fare le cose, ma non butta via il bimbo con l’acqua sporca. […] Apple ha innovato a fondo il mio telefono di dieci anni fa, sapendo che prima o poi sarei andato al negozio a ricomprare con gioia la stessa cosa che già avevo, perché costretto dalle App che usavo.

Il progresso è il dono dell’illuminismo all’umanità, permette alla ragione di individuare i bisogni e alla scienza di soddisfarli. Ma è molto più facile inventare nuovi bisogni da soddisfare che identificare i veri bisogni dell’umanità in quel momento. Alla lunga è più redditizia la seconda via. Edison, Ford, Rockefeller capivano bene perché servivano l’elettricità, le automobili e il petrolio. Ford lo sapeva tanto bene da dire che i clienti avrebbero comprato auto di qualunque colore, purché nere. Edison creò tutto un nuovo mondo soltanto con l’elettricità. Rockfeller sapeva bene che il carbone non sarebbe bastato.

[…] Un tempo avevo una Plymouth Valiant che faceva la stessa cosa che ora fa la mia Lexus, ma a un prezzo molto inferiore. Era una gran macchina e la ricomprerei al volo (con l’illusione di rivivere la gioventù), ma Chrysler ha smesso di produrla, senza averla ammodernata. Innovare per il futuro pur mantenendo il passato è una dote di cui molti non capiscono il valore. 

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